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Valerio Fabbri. CONCERTO # 6 
Romanzo d'appendice, a puntate, al centro della serra di Tellus
Roberto Pagnani,
Roberto Pagnani, 'Labirinto' 
19 Settembre 2012
 

segue dalla puntata precedente...

 

 

Se così fosse stato avrebbe trovato la ricetta giusta.

La ricetta giusta.

Se così fosse stato.

Sperava e pregava.

 

– E come fai? Come fai a girare senza una meta? Ti ubriachi fino a dimenticare dove devi andare? – Gli chiese stupito, intuendo già dalla sua faccia che la cosa non doveva essere tanto facile e che nuove sorprese lo stavano aspettando.

– Prendo una persona a caso e mi metto a seguirla. Poi, se un’altra persona attrae la mia attenzione, giro i tacchi e mi metto a seguire quella. Così mi sembra di essere indirizzato dal caso, e sono più curioso di vedere cosa succede, cosa incontro, cosa vedo, dove vado a finire senza che io programmi niente.

– Bene, e dopo che succede? – Domandò con la voce piena di palpitante curiosità.

– È questo il punto, non succede niente: non faccio nemmeno dieci metri. Altro che avventure!

– Come sarebbe a dire che non fai nemmeno dieci metri! Mi sembra piuttosto il contrario, cioè che così facendo uno non debba fermarsi mai.

A Mirco sembrava decisamente impossibile che, girando per la città a vanvera, ci si dovesse fermare così presto.

A ben vedere infatti le vie, le cose da fare e le possibilità da precorrere, tutto considerato, sarebbero infinite, se non le si limitasse con un scopo ben preciso. Si esce proprio perché si deve fare questo o si deve andare là, solitamente difatti ci si dice così. Ma se invece non ci fosse un’urgenza a spronarci, allora potremmo anche disperderci, può darsi per sempre, nelle geometrie indisciplinate del nostro andare.

Potremmo ad esempio disegnare con i nostri passi migliaia di quadrati irragionevoli, oppure continuare spensieratamente a girare in un cerchio incapace di ipnotizzarci, nonostante la sua monotonia, poiché rivelatore ad ogni nuovo giro di più cose che non ci avevano colpito durante il giro compiuto in precedenza. Infine si potrebbe anche, sempre camminando, per così dire sullo stesso posto, sovrapporre la figura di un triangolo abbozzata con i nostri passi a quella di un quadrato tracciata allo stesso modo, e sommare il tutto a un ottagono, e così via per chilometri e chilometri di figure incise l’una dentro l’altra in una specie di geometria maleducata e scarabocchiata, irriguardosa nei confronti dell’eredità euclidea. Ma tutto questo forse ancora un senso ce l’avrebbe, molto remoto, ma ce l’avrebbe ancora.

Oppure spostandosi in maniera così tanto ripetuta quanto casuale, chissà se eventualmente, girando in quel modo, si sarebbe potuti arrivare anche a Calcutta, tanto per dire.

L’unico ostacolo per quel genere di mete sarebbe stato il mare.

Forse ancora una volta il confine sarebbe tornato ad essere il mare, con la sua idea di grandezza e vastità a delimitare la terraferma. In definitiva ci saremmo ritrovati con un infinito spalancato, che imprigionava al suo interno, un paradossale infinito più piccolo, che era circoscritto soltanto alla raggiera dei percorsi praticabili o di figure sovrapponibili, incalcolabili volte, su di una specie di mappa, a questo punto tanto inutile quanto pasticciata.

 

– Ma così ci si perde la vita. Non ti fermi più. – Fu il risultato più che certo della meditazione silenziosa di Mirco.

– Assolutamente no. Vuoi provare? – Gli propose Federico con la stizza di chi deve dimostrare una cosa già di per sé troppo evidente.

– Vai! Allora a caso, seguiamo quella ragazza.

E si infilarono dietro ad una ragazza con un giubbotto rosso, l’uno convinto che si sarebbero arrestati immediatamente, l’altro che, al contrario, non solo era persuaso avrebbero attraversato tutta la città, ma era altresì ansioso di sapere in quale cancello o cortile si sarebbero ritrovati, davanti a quale palazzo, sarebbero andati a parare. Perché dove altro poteva andare una ragazza con un giubbotto rosso se non a casa o al lavoro o in un qualunque altro edificio? E il loro peregrinare, allora, sarebbe proseguito col pedinare qualcun altro magari fino a un parco o una panchina, intersecandosi con un altro percorso possibile, magari con quello di qualcuno che doveva andare al supermercato. E così via per sempre, tessendo una ragnatela su una mappa, che velocemente si sarebbe ricoperta di linee e tracciati, che a loro volta in poco tempo avrebbero finito col nasconderla e renderla inutile. Prede del proprio cammino, a conti fatti. Chiusi nel bolo della propria città o perfino approdati in chissà quale universo parallelo che la intersecava.

Inoltre, tutto considerato, camminando all’infinito si sarebbe potuto evitare finanche la morte. Prigionieri sì, senza dubbio, ma dell’eternità. Nessuno infatti è mai morto camminando, perché la morte implica staticità, essendo essa la negazione stessa del movimento. Anche coloro ai quali è pigliato un colpo durante una passeggiata, nel momento del trapasso si sono fermati. Eccome. Ma qui, viceversa, era in ballo il concetto di una camminata infinita e perciò immortale. Eterna. Bastava non fermarsi mai e, anzi, il fermarsi era proprio ciò che risultava impossibile fare.

Ma proprio mentre Mirco stava pregustando queste speculazioni nonché questi fantasiosi sentieri da scoprire in una città che ormai conosceva tanto bene, la ragazza che stavano seguendo dopo pochissimi metri cambiò improvvisamente direzione e si infilò dentro al negozio di un tabaccaio.

I due amici si accostarono alla vetrina e, con l’intenzione di aspettare che la ragazza uscisse, finsero di ammirare tagliasigari, pipe in radica, portafogli in cuoio, cera per baffi, dadi, automobiline giocattolo, piccoli troll in gesso dalla chioma viola, scatole di sigari, un pastore tedesco con la testa che si muoveva su e giù. Purtroppo, però, si accorsero anche e ben presto che avrebbero atteso invano, poiché la ragazza sfilandosi il giubbotto, si fermò a parlare con la tabaccaia che evidentemente era una sua amica.

A questo punto gli occhi di Mirco rivolsero la loro attenzione sul particolare di un macchinoso tagliasigari e questi non mancò di indicarlo anche a Federico.

– Guarda, ricordi il pezzo che hai comprato ieri dal mio amico, quando ci siamo conosciuti?

– Maledizione! Di male in peggio. Hai appena fatto fuori un pezzo della mia collezione. – Imprecò Federico, riconoscendolo subito e senza alcuna ombra di dubbio.

– Scusami, te l’ho detto istintivamente, ma avrei fatto meglio a starmene zitto.

– No, hai fatto bene. Te l’ho già spiegato ieri. Sono curioso di sapere per quanto tempo un oggetto può rimanere sconosciuto.

Ma ciò nondimeno tra i due si stabilirono venti secondi almeno di silenzio che entrambi impiegarono a guardare quella vetrina senza però vederne più il contenuto e pensando completamente ad altro, ciascuno cercando di nascondere la propria amarezza.

– …

– …

– Vieni seguiamo quel ragazzo al cellulare. – Propose improvvisamente Mirco nella speranza che la ripresa del loro esperimento distogliesse entrambi dai loro pensieri e da quell’imbarazzante silenzio. Ma non appena attraversarono la strada, quel ragazzo si cacciò di filata in un bar e si sedette ad un tavolino bevendosi una birra chiara e schiumosa. Questa volta non hanno fatto più di cinque metri e avevano impiegato meno di un minuto a percorrerli. Si poteva vedere ancora vicino a loro, troppo vicino, il punto da cui erano partiti seguendo la ragazza all’inizio del loro peculiare esperimento.

– Quella donna con le borse della spesa, forza. Magari prende un autobus e finisce chissà dove.

Ma la loro corsa, anche questa volta, si arrestò ben presto davanti alla porta d’ingresso di un condominio, adiacente al bar, e dentro la quale la donna sparì dalla loro vista non appena si richiuse alle sue spalle.

– Ma Cristo santo! Cos’è?! Nessuno cammina per più di dieci metri in questo cazzo di città. Sarà così anche a Parigi? – Esclamò Mirco molto sorpreso e deluso come non mai.

– Non lo so. Che ti avevo detto? È incredibile. Forse è la città stessa che non favorisce la casualità, bisognerebbe che non esistessero bar, supermercati, negozi, ma solo strade circolari, tracciate senza una prospettiva, parchi forse, probabilmente rotondi, senza che si sbuchi da nessuna parte per chilometri e chilometri, in modo che camminare sia un gioco e non il modo per arrivare da un punto all’altro. Così forse ci sarebbero più sorprese e più incontri, più avventure insomma. Ma in fondo non ne ho idea nemmeno io.

– Forse. Ma tutto questo è impossibile

– Appunto. Quindi credo che sia così da noi come a Parigi, Calcutta o in qualsiasi altra parte del mondo.

E di nuovo tra loro si intromise un imbarazzato silenzio.

 

L’infinito non esiste.

 

Uno non può girare a caso, senza meta o senza senso, e questo perché è circondato. Si finisce inesorabilmente con l’andare a sbattere sempre contro le pareti del senso o di una casa o di un cortile o di una via, insomma contro dei confini, che sono dappertutto. E ti ritrovi sempre in una strada segnata, da un nome, da due file di strade, in una mappa. Anche noi, in fin dei conti, siamo in tutto e per tutto una coordinata, questo perché la mappa è al di fuori del nostro corpo e noi l’abitiamo che lo si voglia o no. Potremmo tuttalpiù non avere senso, ma quel senso ce l’avrebbe comunque tutto il resto che ci circonda e che ad ogni modo ci obbliga a rimanere individuabili nelle nostre coordinate. Così come un senso, del resto, ce l’hanno anche tutti gli altri che camminano per spostarsi da un posto all’altro, e quelli da qualche parte ci collocano sempre. Mirco e Federico per esempio erano quelli che senza una ragione seguivano quelli che invece avevano un motivo per camminare e andavano per ovvi motivi in un supermercato, dal tabaccaio, al parco, o semplicemente rientravano a casa. In conclusione, non esistevano le strada, se ci si pensava bene. Esistevano soltanto le due file di case che le delimitano.

A Mirco in fondo questa scoperta non dispiaceva. Sebbene la sua testa stesse gonfiandosi al punto di scoppiare in un furioso dolore da emicrania, si sentiva quasi soddisfatto, protetto da quella gabbia in cui si era scoperto ad abitare. Dopotutto soffriva sempre perché perdeva di vista il senso delle cose o non sapeva trovarne uno a se stesso. Oggi aveva constato empiricamente, vedendolo nelle vie della sua città, toccandolo con mano, è proprio il caso di dirlo, che dal senso non si può scappare.

Il mal di testa però spingeva sempre più forte.

 

Forse erano arrivati alla fine del linguaggio e non c’era altro da dirsi, adesso c’erano soltanto cose da condividere, ma la paura era che qualcosa potesse condividersi solo facendo la spesa, oppure sedendosi ad un bar o blaterando del più e del meno come una televisione accesa alle tre di notte in un salotto buio.

Quello che ci circondava: i mattoni, gli spigoli delle case che ad ogni svolta formavano le strade, i portoni di vetro che sputano le persone nelle vie con enormi rutti metallici, non avevano alcun segreto ed erano solo delle cose, nient’altro.

Volendo avremmo potuto toccarle con mano.

Anche i colori erano diventati cose che si potevano toccare: il rosso si era impastato con la mela e non si poteva più staccare da lei, lo toccavi sulla frutta matura senza alcuna emozione.

Allora, la gente lavorava, guadagnava, faceva la spesa, mangiava, defecava in bagno, e la sera guardava la televisione per non essere soltanto questo, per sognare un poco prima di venire colti dal sonno e continuare a non pensare.

Volendo tutto questo lo si poteva toccare con mano. Faceva parte di loro, era la vita di tutti, e non si poteva staccare da quei corpi buttati nell’esistenza, nel mondo, in mezzo a tutto, alle cose.

La realtà sembrava molto semplice, una cosa unica capace di far compiere alle sue zampette lo stesso movimento in tempi leggermente diversi, poiché dall’altra parte del mondo era ancora notte e la gente dormiva tranquilla, ma quando si sarebbe svegliata avrebbe fatto le stesse cose di sempre e di tutti.

Allora il problema tornava a riproporsi nella tasta di Mirco: è senso questo? È destino? Cos’è?

La sua testa era diventata un dolore unico da tempia a tempia.

– Un mondo rosso è nelle strade.

– Come? Che dici? – Lo guardò allarmato Federico.

– Cazzo, scusami, ma ogni tanto mi viene un gran mal di testa, e faccio fatica persino a parlare. Mi si attorciglia tutto.

Ma la spiegazione non doveva averlo convinto, perché continuava a guardarlo molto perplesso.

– Credo che tu sia più matto di me. Siamo davvero una bella coppia: non se ne salva uno. Comunque speriamo che almeno ci ricoverino nella stessa stanza. – Scoppiò a ridere.

E di gusto fece altrettanto Mirco. Sdrammatizzando le sue orribili elucubrazioni.

– Allora vieni con me, voglio presentarti una mia amica. – Gli propose.

– È carina almeno?

– Normale. Ma è molto simpatica.

– Uhmm, questo è per non dirmi che è brutta vero.

– Ma no, ti piacerà. Vedrai!

 

Arrivarono da Sandra quando ormai era ora di pranzo, e quindi Mirco era convintissimo di trovarla in casa, tuttavia quando suonarono il campanello nessuno rispose. Ma, nel momento in cui si girarono per andarsene si sentì una voce metallica uscire dalla grata del citofono.

– Chi è?

– Ciao Sandra, sono Mirco.

– Mirco? Ma eri qui ieri. – Il suo tono di voce era indubbiamente seccato.

– Sono passato solo per salutarti, con un amico.

Ci fu un attimo di silenzio.

– D’accordo, sali.

La sua voce non era convinta, ma gli aprì la porta lo stesso e mentre aspettavano l’ascensore vide Federico fissarlo in modo preoccupante.

– Dove mi stai portando scusa? Cos’è, una specie di bordello?

– Ma no, cosa dici? È un’amica, certo un po’ strana, ma solo perché predice il futuro con le carte o col caffè e tutte quelle robe del genere...

– Come scusa? Ti fai leggere il futuro? Credi in queste cose?

– Ma no, te l’ho detto è un’amica e ogni tanto, quando passo a salutarla, ne approfitto per bermi un caffè con lei e, dato che ci siamo, per farmi leggere quello che vede nei fondi.

– Insomma, per pura e semplice combinazione.

– Se è per questo, conosco Sandra da molti anni, ancora prima che si facesse prendere da… questi interessi esoterici.

– Mah, sarà… È proprio vero: non ce n’è uno dei normali.

 

 

[...] Il seguito alla prossima puntata

 

 

| | | | | | 6ª puntata | | |

© Concerto di Valerio Fabbri, illustrazioni di Roberto Pagnani


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