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Anonimo isolano. Due racconti giovanili 
(rinnegati ma non rifiutati/ per non dimenticare)
31 Agosto 2012
 

UN POETA

 

 

– Perché proprio a me? Perché?... – E si torceva le mani, passeggiava freneticamente per la stanza. Erano le tre del mattino quando Livio fu svegliato dal ronzio di una zanzara che voleva succhiargli il sangue. E forse c'era già riuscita - la parassita - a sua insaputa, mentre lui dormiva, e magari allora sghignazzava – zzzzzzz,scrittoruncolo, ti punzecchio il pieduncolo, zzzzzz, tisucchio e risucchio il sanguignolo alfabetincolo,poetuncolo del mio puncigliuncolo, zzzzzzzzzz. Ma si era divertito anche Livio - e con quale sadismo! - quando l'aveva spiaccicata al muro col suo “5000 etimologie greche”, la prima arma che gli era venuta a portata di mano.

– Perché? – mormorava adesso dopo aver contemplato il dolce silenzio della notte, mercé la tragica fine dellinsetto inopportuno. Reiteratamente ripensava e si crucciava al perché antico quanto luomo; e come fosse buon vino invecchiato quella parola gli entrava nelle vene e lo inebriava.

Livio amava una donna e la donna amava l'amore; ma l'amore sapeva riconoscerlo Livio, più di quella donna, «più di qualsiasi altra donna», pensava in quel frangente di tacita rabbia. Quella notte non riusciva a prendere sonno, accendeva una sigaretta dopo l'altra, si dimenava nel letto come un'anguilla fuor d'acqua e... si chiedeva la morte: la morte delle formiche, della zanzara che aveva ammazzato, degli oggetti riposti in un cantuccio della sua scrivania, della vita, dell'amore.

Il dramma di Livio stava proprio nell'angoscioso mistero della morte. Stupido, forse, com'erano stupide le geometrie di parole che creava (stavolta mistero della nascita) sugli stupidi fogli di carta bianca; ma il suo mondo era quello, quella la sua natura. Livio sentiva il peso dei pensieri come un grave «peso d'aria». E l'aria?... ariosa anch'essa, ovviamente, mentre materia fatta di sassi argillosi nutriva l'esistenza e la società in cui viveva. «Perché?...», imperterrito continuava a chiedersi, ed apriva la serranda coi barlumi della notte, si struggeva l'animo, tornava a richiuderla. Soffriva d'insonnia da più di una settimana; sentiva che gli covava dentro qualcosa cui non riusciva a dare un nome. Da qualche tempo si ritrovava a fare stranezze che non aveva mai fatto prima, ubriacarsi e fissare il soffitto, ascoltare una canzone e sputare a terra, urlare la sua gioia o il suo dolore e 'perire' come schiacciato dalle tegole della casa. Quanto ad uscire, poi, non ne voleva più sapere. Si era chiesto se non stesse per impazzire. Repentino si era risposto che di follia non era mai morto nessuno.

Era proprio una crisi!

Tutto era iniziato qualche mese prima, con la fine d'un amore spazzato via dal tempo, nel tempo.

«Il tempo» aveva allora pensato, «ne siamo schiavi fin dalla nascita. D'improvviso ci eleggiamo suoi adepti, qualche volta ci illudiamo di essere creature divine, eterne e lo sprezziamo, ma ritorniamo a fare i conti con esso, inevitabilmente, come fosse la nostra 'prima madre', prima ancora dell'utero, prima ancora delle acque. E una madre, si sa, la si porta sempre dentro, come una gravidanza all'inverso. Ed eccolo lì, coi suoi 'toc-toc' una mattina l'ha fatta sparire, dissolvere coi sogni che ci erano appartenuti».

Così, da ragazzino, Livio aveva spesso sognato una donna da amare per sempre e dei figli da crescere; insomma, vagheggiato il 'focolare domestico'. Sognatore inguaribile, estremo amante - maniacale - della bellezza delle cose, patito di una presunta 'perfezione' come tendesse all'eterno fulgore di un paradiso introvabile... ecco cos'era stato Livio da giovane! E si era perduto spesso, irrequieto e smarrito, di fronte ad un bel viso di donna o ad un fondoschiena ben modellato da quel grande scultore che è la natura.

Si era prodigato in ogni modo per viversi il momento (quell'“attimo fuggente” i fumi evanescenti della passione, il senso del vuoto nel caos di mille occupazioni quotidiane, l'amarezza delle disillusioni, la cruda realtà dello scorrere del tempo; di quel divenire eracliteo che come acqua di fiume non lascia nulla ed allo stato originari, muta ogni cosa, leviga pian piano anche la roccia più imponente.

Sempre in ritardo con le stagioni della vita non era stato capace di cogliere i frutti del momento: ne odorava i profumi, li faceva suoi, nondimeno gli era spesso accaduto di restare a stomaco vuoto. Gli anni accademici s'erano prolungati troppo e quando finalmente riuscì a laurearsi aveva perduto tanti di quei treni in partenza per la vita da pre-sentire una specie di senilità prematura. Poi aveva conosciuto l'amore - dopo averlo tanto atteso - ma a cosa gli era servito se nella inesplicabilità che questo sentimento comporta l'acqua di fiume glielo avviluppava in un mantello di rose appassite? Livio aveva successivamente compreso e ben accettato quel tipo di 'morte', ed in modo naturale, come avviene ad ogni uomo in tali circostanze, se n'era fatta una ragione.

«L'amore sarà pure irrazionale, però negarsi le evidenze sarebbe da rincoglioniti!» aveva detto agli amici. Si trattava di 'un'altra morte', adesso c «Com'è strano» rifletteva «mi confondo fra gli infiniti simboli d'un mondo, vorrei non finissero mai, e pretendo di poter sceglierne uno e d'amarlo per tutti...».

Parlava nuovamente di lei; parlava di lei nel mondo e per il mondo.

Qualcosa di sicuro lo aveva gravemente ferito, cos'era? Si confondeva ancora ed ancora si chiedeva la morte! E la vita? Per Livio la vita era principalmente fantasia e temeva di doverne possedere la convinzione per sempre. Sospettava di non poter amare 'nessuno' per amore di 'tutto', o di scegliere 'l'uno per il tutto' e di perderlo con la 'morte dell'uno o del tutto'. Intanto, riflessi sobri della luce dell'imminente alba filtravano nella stanza dai fori della serranda. Fuori tutto taceva ancora. Sentiva sulla pelle il solletico di quel silenzio ed in quello socchiuse gli occhi e si addormentò.

Al risveglio sentì le note della pioggia sull'asfalto; forse aveva piovuto dacché dormiva. La caffettiera fece presto a diffondere quell'aroma che per lunga abitudine gli destava i pensieri del nuovo giorno. Gli sembrava di sentire il 'buongiorno' dai gargarismi di quella vecchia latta. Si sentivano vigorosi (l'alba era sorta da un pezzo) i rumori delle macchine che orgiavano ai semafori scatenando il suono dei loro clacson. Livio si alzò, indossò un maglione di lana - quello rosso suo preferito - e corse verso l'uscio nell'ansia di accendere una sigaretta al lungo mare poco discosto da lì. Il mare era limpido e quieto, quella mattina.

«Il mare è sempre silente», pensò.

S'impose di non chiedersi il fatidico 'perché' e s'annegò in un unico pensiero: un poeta!...

 

 

 

LA BOTTEGA DEL NON FARE

 

 

C'è una bottega, lì nella vecchia casa della buonanima di Monsignor Stefano, una bottega del “non fare”. Ed è veramente grande, con le tre immense stanze di cui si compone, la bottega del figlio illegittimo (Dio comprenda!) di Mons. Stefano, quel caro figlio che se anche un po' 'strano' è pur sempre un buon giovane.

Nell'atrio della bottega c'è un piccolo giardino ma ampio abbastanza da permettere ai mandarini, ai limoni, alle arance che vi sono piantate, di far venire ai visitatori irresistibile il desiderio di godersi la piacevole frescura e gli odori vigorosamente inebrianti. Certo, non soltanto gli agrumi, i fiori, ma il grosso riflettore puntato sulla statua raffigurante un omino seduto su di uno spicchio di luna, ma altre statuette di fattura orientale, ma... ogni elemento insomma è un omaggio alla luce, da quel radioso omino sullo spicchio di luna con le mani color madreperla legate a una catena nerissima per contrasto.

Curiosa la bottega del giovane Rovigo che tutti a causa della sua stramberia chiamavano 'il forestiero'. Certo è che al forestiero era costato davvero tanto mettere su la bottega del “non fare” proprio lì, ad Arfulla Neda, ove gli abitanti sembravano essi i matti, sempre indaffarati com'erano, frenetici per qualsiasi cosa, mai che si fermassero un attimo neanche per pisc...

Ogni racconto va fatto per ordine, è opportuno dunque che vi narri brevemente come andarono le cose dapprincipio.

Monsignor Stefano aveva segretamente amato la bella Flavia, morta poi nel partorire Rovigo, il quale, affidato agli zii da parte di madre, seppe sin dalla prima infanzia che i genitori erano morti in un incidente stradale alcuni mesi dopo la sua nascita. Falsa verità che fu smentita dal monsignore quando, in punto di morte, lo aveva mandato a chiamare dicendogli:

– Adesso è ora che tu sappia di chi sei figlio, che tu sappia come sono andate in verità le cose... – E dopo aver raccontato i fatti con sbalordimento del figlio, da buon Monsignore qual era non poteva mancare la predica: – Non fare, figliolo, non fare! Impara che nella vita bisogna essere in grado di non fare. Bisogna imparare a non scegliere se non prima si è scelto, a non confondere se non si è stati confusi, a non ingannare se non si è stati ingannati, a non amare... Bisogna saper restare lì, tra il fare e il non fare, tra il dubbio e la certezza. Lì su quella soglia che dà un po di senso all'esistenza e che a volte fa trovare Dio. Bisogna voler fare e non fare. Non fare! Non fare figliolo! Cristo è stato sulla croce, insanguinato, impaurito, eppure non ha fatto! Avresti avuto un padre se io non avessi fatto; avresti avuto un padre, anche se io avessi trovato il coraggio di un buon fare...

La bottega del “non fare” fu costruita in circa cinque anni di durissimo lavoro su progetto dei migliori ingegneri del paese.

Opera grandiosa, la sua realizzazione fu soprattutto il frutto della volontà di Rovigo che col suo puntiglio non smise mai di curarne i particolari. Fine ultimo nelle intenzioni del giovane era di creare un luogo - o forse un 'non luogo' - dove potersi disintossicare da tutte quelle faccende quotidiane che del 'fare' si nutrono; di quel fatidico fare che fa credere agli uomini cosiddetti laboriosi di vivere nel giusto.

– Cosè il giusto? – domandava agli abitanti di Arfulla – è forse il fare di quei medici che pur di incrementare il loro conto in banca lasciano morire la povera gente? È forse il fare dei ferri da chirurgo dimenticati nello stomaco di un paziente? È forse il fare delle organizzazioni criminose che commerciano l'infanzia negata di migliaia di bambini? È forse quello di alcuni politici che pur di governare...? È forse il fare che ha distrutto i sogni, la fantasia, la danza del mistero in nome di una razionalità di plastiche e metalli? Chiamatemi pure qualunquista nullafacente, meglio che faccendiere dell'avere, meglio che venditore di fumo; meglio sacrificare vittime al Dio Pensiero che al falso positivismo degli ingegneri del consumo; meglio le guerre dei filosofi, dei poeti - parole di piombo! - che quelle colonialistiche che sterminarono gli indiani d'America; meglio la caccia ai bisonti, meglio le battaglie per la sopravvivenza che quelle per la supremazia...

E attoniti stavano a guardare, con cinica distanza. Rovigo continuava:

– Avete mai riflettuto sul vostro, di fare? Venite nella mia bottega!

Li sfidava tutti, certo che se non altro per curiosità sarebbero andati in parecchi all'inaugurazione di quella sua sospirata bottega. – Chi, quel giovane tanto strano? Poveretto! ...Vediamo fin dove arriva la sua follia.

Ne giunsero da ogni parte, stavano fermi nell'atrio del giardinetto a guardare stupiti e indifferenti l'omino seduto sullo spicchio di luna con le mani legate da una grossa catena d'acciaio. Rovigo fece loro segnale di entrare, accese un sigaro con quieta disinvoltura. Li precedeva muto e attento ai loro sguardi, ai loro commenti.

La bottega - come detto - era composta di tre stanze. Aprì la prima: pareti bianche, bianco il pavimento; una finestra proiettava corpuscoli di luce su di una scrivania sulla quale giaceva un foglio di carta affiancato da una stilo:

– Qualcuno mi scriva dove si trova lisola di Laputa, il paese degli houyhnhnm, o Lilliput, o Brobdingnag.1 Qualcuno mi descriva qual è il punto di vista della mafia, quale quello delle guerre... Qualcuno mi scriva dove posso trovare la Città Perfetta di Raffaele Itlodeo, dove la Città del Sole?2 Sorrise. Un sibilante borbottio si levò fra le persone; qualcuno andò via. Rovigo passò nella seconda stanza, vuota e bianca anch'essa, con un'unica sedia al centro.

– Si sieda uno di voi! – esclamò con voce ferma. Si fece avanti un anziano signore che sedette incuriosito.

– E ora?

– Guardi il tramonto dalla fessura che ha di fronte, quel tramonto che vede senza guardare da tutta la vita. Lo stesso che, se anche lei avesse meditato, sarebbe uno dei pochi ad averlo fatto. Lo stesso tramonto che ci prelude da sempre la fine di ogni sforzo, di ogni nostro buon fare. E per chi poi? Guardi alla sua destra quel foglietto appeso alla parete e legga ad alta voce.

L'anziano obbedì:

«Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera».3

Qualcuno sogghignò. Fra il mormorio della gente altri sentenziarono: «È pazzo!». Forse qualcun altro si fermò a riflettere. Tutti restarono, stavolta non resistendo alla tentazione di visitare l'ultima stanza rimasta. Una stanza colorata, variopinta, dai disegni infantili, piacevolissimi allo sguardo. Oggetti di ogni tipo la riempivano, per alcuni dei quali non si capiva a cosa potessero servire, ma d'una bellezza irresistibile. In un angolo stavano accuratamente riposti giocattoli fra i più disparati che si possano immaginare. Ragazzini giocarono con un trenino di cartapesta.

– Ebbene, signori – iniziò a dire Rovigo – tutto ciò è lavoro dei vostri figli. Anche voi a suo tempo amavate giocare, sebbene non lo rammentiate.

Il banchiere del paese torse le labbra ed esclamò: – Costui è davvero un pazzo! – cercando il complice sguardo dei presenti.

– Sì, forse lo sono, ma ecco cos'è il fare che non conoscete più, ecco cosa vi manca. E voi, cari governatori arfullesi che spesso nascondete i vostri egoistici interessi dietro slogan di partito o sigle associazionistiche, abbiate il coraggio di scoprire le carte truccate, almeno di non essere tanto ipocriti. Voi che dite di agire per il bene di Arfulla, ditemi perché tanti giovani disoccupati dovrebbero credere al vostro fare quando non gliene date nulla, da fare... Se non sarete in grado di rivisitare quella purezza e giocosità che i vostri bimbi possiedono, rimasta forse in un cantuccio dentro di voi, ebbene, se non sarete capaci di far questo potrete pur essere banchieri ma truffaldini, bravi medici ma assassini... Bisogna avere il coraggio di non adattarsi appieno alle regole dilaganti, di salvare i sogni. E non vi parla il figlio del monsignor Stefano, che non si assunse la responsabilità d'un figlio; non vi parla un seguace di quella religione in nome della quale sanguinaria violenza è stata versata ripetutamente, quella religione - di qualsiasi matrice - fedele soltanto all'ipo-crisia. E se volete saperlo, non vi parla affatto un religioso (almeno così come voi lo intendete); vi parla un uomo comune che mille volte ha profanato la vita in tutte le sue sfaccettature. Non credo che il bianco sia l'opposto del nero. Non credo sia tanto spessa la barriera che separa il Male dal Bene. Non mi allettano le facili rive o le fermezze spudorate di chicchessia. Credo in San Francesco, in Madre Teresa di Calcutta, alla Poesia di un Uomo che muore impaurito sulla croce, e non a chi mi dice, ad esempio, che l'erotismo porti all'inferno. Conosco prostitute più pure dalcuni sacerdoti bigotti; conosco la religiosità di Leopardi... Credo nell'infanzia, nel “fanciullino” pascoliano, nelle illusioni foscoliane, nelle disillusioni di Quasimodo...

– Vi parla un uomo, ripeto, semplicemente un uomo che non appartiene in ogni modo al fare dei profeti e neppure al vostro.

– Bisogna fare, sì, ma fare un po come i bambini. Il bianco delle due stanze è tanto bello quanto i colori di quest'altra, colori solari, colori dei vostri bimbi...

A questo punto la folta schiera di persone lasciò la bottega per ritornare ognuno alle proprie case. Qualcuno gridava ancora dandogli del pazzo, altri gesticolavano ridendo a crepapelle, altri ancora silenziosamente avevano capito.

«Ma cosa c'è da capire?» pensava Rovigo. Rimasto solo nel giardinetto, volse lo sguardo verso l'omino marmoreo e sorridendo esclamò: – Adesso dovrò cercarmi un lavoro per vivere. Onestamente dovrò 'fare'! Certo, non verrà mai nessuno a comprare in questa benedetta bottega. Nessuno compra parole!

– Forse, potrei aggiungervi un po di roba, salumi, formaggi e quant'altro... Beato tu, caro omino, beato tu...

 

Anonimo isolano

 

 

1 J. Swift, I viaggi di Gulliver.

2 T. Moro, Lutopia Campanella, La città del sole.

3 S. Quasimodo, da Acque e Terre: Ed è subito sera.


 
 
 
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