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Valerio Fabbri. CONCERTO # 3 
Romanzo d'appendice, a puntate, al centro della serra di Tellus
Roberto Pagnani,
Roberto Pagnani, 'Robot' 
29 Agosto 2012
 

segue dalla puntata precedente...

 

 

Forse rimarrà soltanto un storia da raccontare a qualcuno, se ancora esisterà qualcuno: c’era una volta un capannone con dentro un vecchio che fumava sigari varicosi… Una specie di poesia arricchita di senso posticcio.

 

Nel frattempo, accompagnato da questi pensieri, avvinghiato da questi tentacoli che strisciavano sul suo cervello risalendo dal buio della pancia, era arrivato da lei. Toccò con una mano la porta a vetri smerigliati del condominio e con l’altra spinse la maniglia di ottone, larga e spiattellata come la cima delle corna di un daino.

Consumata dalla ripetitività di un gesto che non cambia mai nonostante il passare degli anni, quella maniglia stava lì, davanti a lui.

Si consumava l’oggetto, ma non il gesto che, sebbene istrionico, continuava ad eseguirsi da sempre uguale, come se la vita potesse non fermarsi mai, o il tempo non scivolare via, come se siano solo le maniglie a consumarsi. E basta. Come se da una parte ci fosse il tempo e dall’altra gli oggetti che popolano la vita, come se una maniglia possa essere la cima delle corna di un daino di ottone.

Un filo che collegava il tutto doveva essersi spezzato, per forza:

– Sandra sono io. Ne ho bisogno. Aprimi per favore. – Supplicava dopo aver suonato al suo campanello.

– Mirco! Ciao! Non ti aspettavo… – Rispose Sandra dal citofono.

– Fammi salire per favore.

– No, è meglio di no.

– Ti prego – e ormai stava baciando la grata del citofono, miagolando a quell’orecchio distante da lui dieci piani di condominio, mentre i bottoni dei vari campanelli del condominio stavano diventando lentamente le tessere di un mosaico:

– Aprimi cazzo! Non ho il disegno e tutto si sfilaccia. Devo intavolare un mosaico di senso.

Non ce la faceva più, aveva bisogno di sapere qualcosa di se stesso e sul suo futuro, di tornare a credere e parlare in modo normale.

Ci fu un istante di silenzio da parte di entrambi.

– …

– …

– Va bene sali.

E la porta si aprì con un cinguettio metallico che gli percorse la schiena in un breve ma intenso brivido di soddisfazione e di piacere. Ormai era fatta.

Saltò sui gradini della scala per non dovere aspettare l’ascensore e, quando arrivò alla porta socchiusa dell’appartamento di Sandra, si accorse, con lo stesso piacere di chi è scampato a un pericolo, che in quel momento giù nell’atrio l’ascensore stava spalancando le sue fauci metalliche per ingoiarlo. Ma ormai in ritardo, perché lui era già al sicuro dieci piani più sopra.

– Il metallo questa sera non mangia.

– Entra pure, un attimo e sono da te. Togliti il giaccone. – Stava dicendo Sandra dalla cucina, da dove proveniva anche il rumore del rubinetto dell’acqua aperto.

Sta mettendo l’acqua sul fuoco, per il caffè.” Pensò.

Nell’ingresso, davanti a lui, uno specchio lo stava guardando. Decise di restituirgli lo sguardo.

Gli sembrava sempre una cosa strana guardarsi in uno specchio: era come se la sua superficie d’argento si potesse rompere all’improvviso, dopo secoli di innumerevoli immagini riflesse, in centinaia di denti appuntiti, pronti a morderlo con le loro nuove figure impazzite e scheggiate.

Non erano più pensieri, quelli che aveva in testa, ma lastre lucenti conficcate tra un pensiero e l’altro e non sapeva più se riflettevano lui, o Sandra che, una volta alla settimana, sollevava a caso il mazzo di carte per tranquillizzare il suo futuro, leggendoglielo e indovinandolo anche nei fondi di caffè, oppure nel riflesso di una pozzanghera, alla ricerca di un senso, del nesso che collegava ciò che succede, il passato col presente, il presente col futuro.

 

Ebbene sì, tutti possiamo credere ad una favola, ma solo fino a un certo punto. Mirco per esempio credeva che suo padre fosse stato fumatore. Per l’austerità del suo odore o la complessità dei suoi gesti, immaginava che da giovane quelle dita, che vedeva così forti e antiche, avessero stretto molte sigarette. Pensava che le movenze, che avevano le sue mani, stessero ad indicare un passato da uomo di mondo speso con eleganza e al tempo stesso con fermezza, creatività e precisione nel dire la cosa giusta al momento opportuno, nel vestirsi come nel farsi notare, senza apparire troppo e, al tempo stesso, senza passare inosservato.

Invece no, aveva chiesto a sua madre chiarimenti in proposito una mattina d’ottobre, davanti al rosa della confettura di fragole che stava sdraiato e immobile sulle fette biscottate. Nel sollevare la tazza fumante di caffelatte aveva iniziato a scottarsi i polpastrelli e istintivamente aveva abbassato lo sguardo sulle proprie mani. E si ricordò quelle del genitore scomparso.

Suo padre era morto di cancro, ma non aveva mai fumato. Aveva lavorato in fabbrica per molti anni. E con ogni probabilità quella fu la causa della sua morte. I suoi gesti erano fermi e decisi, ma solo perché spinti dalla forza interiore di una rabbia compressa per tanto tempo. Fino al momento in cui si arrese alla propria vita e quella potenza precisa si addolcì in lenta accettazione, arrivando ad assomigliare raffinatamente ad una preghiera. E negli ultimi giorni di vita suo padre infatti aveva pregato, gli disse anche questo sua madre. Pregò di morire il più presto possibile per togliersi dal cazzo.

Le cose del resto ti assalgono all’improvviso, di giorno, quando fai una cosa che hai sempre fatto, come prendere il caffè prima di andare al lavoro o mentre annusi il pigiama prima di metterlo. Con la banalità di ogni colazione, ti accorgi che stai spalmando di finzione una cosa ovvia.

 

Mirco e Sandra si erano conosciuti a scuola, erano in classe assieme. Ma non si erano quasi mai parlati.

Lei se ne stava nell’ultimo banco, con le sopracciglia rasate, un orecchino nella narice sinistra e lo smalto nero. Indossava quasi sempre pantaloni della tuta Adidas e ai piedi calzava soltanto anfibi rossi i cui laccetti bianchi teneva sempre slacciati. Non scambiava mai una parola con nessuno. La sua voce si sentiva solo durante le interrogazioni, quel tanto che bastava per assicurargli una striminzita sufficienza, ed era comunque scocciata.

Mirco ne era disgustato. Ma anche attratto. Perché era bella. E come tutti, anche lui si chiedeva “come mai una ragazza così deve conciarsi a quel modo?”. Avrebbe voluto chiederglielo direttamente, nella speranza di addolcirne i lati scontrosi del carattere, renderla normale e soprattutto baciarla.

Sapeva benissimo però che un approcciò simile sarebbe stato banale e controproducente, sebbene la tentazione di farlo fosse forte e le labbra di lei, sottili e infantili, in contrasto con l’aggressività di tutto il resto, molto provocanti e piene di promesse.

Dopotutto anche lui si sentiva schifato da tutto e da tutti. Anche lui odiava quei professori che per vent’anni non facevano che ripetere le stesse cose e che poi venivano avanti con la pretesa di giudicarti. Loro!

Tirannosauri statici che invece di insegnati come vivere in modo sempre diverso, mutevole alla velocità della luce, si crogiolavano nella piccola certezza del loro stipendio, ripetendo le stesse cose che avevano imparato quando ancora erano studenti e che i loro professori, a loro volta, gli ripetevano a pappagallo. Razza in via di estinzione che aveva persino il coraggio di farsi vanto della propria rarità!

Una volta Mirco portò con sé un quaderno del fratello che cinque anni prima aveva frequentato la stessa scuola ed era stato studente di uno stesso insegnante che ora aveva anche lui. L’idiota ripeteva altezzosamente le stesse identiche cose. Si potevano seguire riga per riga sul quaderno.

Anche Mirco, come doveva esserlo Sandra, era nauseato da tutto questo. Solo che non dava a vederlo con l’abbigliamento. Anzi, si proponeva di affrontare la vita in modo completamente opposto a quello che gli stavano insegnando, non appena fosse uscito da quella specie di ospizio con un diploma.

Però nel frattempo, il più delle volte, progettava attentati. Studiava come fare esplodere le auto a quegli stronzi dei suoi professori o come aggredirli a mano armata uccidendoli senza farsi beccare. Non era ribelle nell’abbigliamento come lo era Sandra, ma la sua bella rabbia che gli ribolliva dentro l’aveva anche lui. Pericolosamente repressa.

A malincuore non aveva mai realizzato nessuno di tutti quegli attentati progettati così minuziosamente e si era sempre dovuto accontentare di qualche buchetta della posta fatta brillare nottetempo, di campanelli divelti, di qualche petardo gettato dentro una finestra aperta una sera d’estate, o di qualche scherzo telefonico che però aveva rischiato di danneggiare il suo anonimato, segnando così una battuta d’arresto a tutti quei progetti tanto deliziosamente vendicativi.

 

Aveva fatto scivolare silenziosamente quel quaderno, vecchio di cinque anni, ma che tuttavia conteneva incredibilmente tutte le parole che il professore stava pronunciando in quel preciso momento, sul banco di Sandra, e lei leggendolo aveva capito di cosa si trattava. Lo guardò e gli sorrise con dolcezza.

Quello stesso giorno la seguì durante l’intervallo in un angolo remoto della scuola e la vide mentre si preparava una canna.

Si fece avanti offrendogli una sigaretta affinché completasse l’opera. E lei la prese. Quando Sandra però si accese la canna senza ringraziarlo e nemmeno degnarlo di uno sguardo, le chiese se poteva fare un tiro anche lui.

– Ti piacerebbe vero? Lascia perdere bamboccio. Levati di torno.

A quelle parole rimase indeciso se spaccarle la scatola cranica contro il muro o soltanto sputarle in faccia. Oppure calare anche lei al centro della ragnatela tessuta con la minuzia dei suoi progetti di vendetta e attentati. Ma si girò e senza dire una parola in risposta se ne andò. E non ne fece niente.

Quel fine settimana, una sera la incontrò seduta nell’angolo più buio di una discoteca intenta a baciare due ragazzi contemporaneamente.

Divertiti zoccola” pensò. E non le parlò mai più.

E finita la scuola nemmeno la vide più.

Fino a quando un giorno per strada si voltò dopo essersi sentito chiamare per nome e se la ritrovò davanti. Subito non l’aveva riconosciuta e lei se ne stava ferma davanti a lui cosciente di questo e in attesa di venire identificata, certa altresì di venire accolta con calore non appena fosse successo.

Aveva cambiato stile. Vestiva normale, aveva le sopracciglia e l’orecchino al naso aveva ridotto le proprie dimensioni fino a diventare un graziosissimo brillantino. Gli occhi però tradivano lo la malinconia di una persona che non stava bene nel mondo in cui viveva e lo sguardo di chi si trovava costretto a sviluppare suo malgrado una sensibilità diversa per sopravvivere all’estenuante ricerca di un equilibrio e dei giusti compromessi da fare.

La riconobbe. E subito dopo l’abbracciò calorosamente come se avesse ritrovato un’amica carissima dopo tanto tempo. Lei non si aspettava niente di diverso, lo lasciò fare e per salutarlo gli baciò una guancia. Sentendo l’umido calore della saliva, Mirco ne ricordò le labbra tanto desiderate e per spirito di conservazione si districò da quell’abbracciò per gettarsi in quello rassicurante della formalità:

– Come te la passi? – Le chiese.

– Bene. E tu? – Chiese anche lei, però visibilmente delusa da quell’esordio.

– Non c’è male.

Dopo di che fra loro calò un silenzio di piombo, come se si fossero resi conto che ogni possibile forma di comunicazione si era esaurita nello spazio di quelle tre battute.

Tanto imbarazzo, che si faceva via via crescente, gli indusse a salutarsi il prima possibile e solo quando si diedero la mano per congedarsi cominciarono a rilassarsi. Lei allora gli rivoltò la mano che lui aveva teso per salutarla e disse:

– Sai che so leggere nel futuro?

– Avanti, allora, continua.

E da quel momento aveva preso a vederla molto spesso. Un po’ perché le piaceva, un po’ per il futuro, che gli interessava non poco anche quello. Anzi, forse di più.

 

– Bevi. – Disse versando dalla moka il caffè in una tazzina di porcellana dal bordino dorato. E lui lo fece.

Sandra prese poi la tazzina e la portò dalla sua parte del tavolo. Mirco invece allungò la mano sinistra rivolta verso l’alto, facendola strisciare sul panno verde fino a incontrare le dita di lei che si misero a percorrere con sapienza le linee depositate sul palmo. Poi, lentamente, Sandra cominciò a guardare sia la granella nera rimasta sul fondo, sia quella inerpicata fino all’orlo della tazzina, che gli stava roteando tra le dita come dotata di vita propria. Il suo sguardo attento si soffermò anche nel punto in cui si erano appoggiate le labbra di Mirco.

Gli occhi di Sandra repentinamente si fecero più scuri e le sue mane più calde, il suo seno stava rilasciando un odore dolce e pastoso dalla camicetta abbondantemente sbottonata e si sentiva ispessire anche l’odore dei suoi piedi.

Era come se entrambi fossero stati nudi. Tutti e due davanti a un unico destino: quello di Mirco. Dalla finestra alle loro spalle, le nuvole stavano appoggiando i gomiti sul balcone della sera, per scrutare cosa sarebbe successo.

 

– Cosa leggi? – Mirco le chiese con la bocca secca.

– È più difficile del solito. Vedo una cosa strana, ma è come se mi mancasse la lingua per dirtela a parole.

– Cioè? Forse che non c’è niente di interessante?

– No! Qui dentro c’è lo stesso motivo per cui sei venuto tante volte da me. È come se si fosse materializzato in questi fondi di caffè.

– Quindi vedi soltanto fondi di caffè e nient’altro.

E iniziò a percepire nella testa come una specie di continuo ronzio e nelle vene un senso di paura e spavento.

– Vedo fondi di caffè che non stanno per il tuo destino, ma che, in un certo senso, sono il tuo destino. Direi piuttosto che qui dentro ci sei tu.

– Forse vuoi dirmi dire che andrò a lavorare in una torrefazione? Cosa? Insomma, parla cazzo? Non vorrai mica che vada via così!

– Calmati! E non parlarmi così. L’unica spiegazione è che ti sia successo qualcosa.

– Evviva! Certo che mi è successo qualcosa! Ma io vengo da te per sapere cosa mi succederà, non cosa mi è già successo. Sei o non sei una che è capace di vedere il futuro?

– Stai calmo stupido, tu hai solo una vaga idea di ciò che intendi con passato e di ciò che intendi con futuro, e quello che veramente significa la parola succederenon lo immagini nemmeno. Tu vieni da me per sapere cosa unisce tutto questo e lottare per cambiarlo se non ti va bene. Tu non vuoi sapere, vuoi cambiare le cose.

– Vaffanculo.

– Vaffanculo tu! Per chi mi hai preso? Che vuoi da me? Non ti devi stupire se credo nel destino: è per questo che vieni da me. Tu non credi nel destino e vieni da me che ci credo, da qualcuno che ci creda e che possa dirtelo, solo che non ti piace. È come se ti mettessero in prigione. E fai di tutto per dimostrare che quello che ti dico non è vero. Ma senza di me, o senza un destino, ti senti solo. Non libero. Ma solo.

– Maledetta strega da condominio! Che cavolo di bisogno hai di dirmi queste cose. Certo che se vengo da te ho bisogno di sapere…

– Hai cominciato tu ad offendere…

– Senti, allora facciamo così. Non possiamo andare avanti dicendoci hai cominciato tu, no tu, no tu… Così non finiremo mai. Scusami, per favore. Ma adesso dimmi di che cazzo di destino si tratta. Cosa cazzo hai visto?

– Qualcosa che ti deve ancora succedere ha già prodotto in te dei cambiamenti. Io, cosa che non mi è mai accaduta prima, ho visto gli effetti e non le cause. Non so cosa ti succederà, so solo che ti è successo qualcosa.

– Ma cosa cazzo! Cosa mi è successo allora?

– Sei diventato solo. Qui ci sei soltanto tu: delle schegge della tua vita, delle immagini che sono solo immagini e che non vogliono dire altro. Come posso dire? Non si collegano tra loro.

– Ma allora cosa devo fare?

– Non lo so. Te l’ho detto: vedo solo quello che è successo. Credo che tu abbia fatto un incontro. E se è così, allora prova a seguirlo, e dagli corda. Fa che abbia un seguito.

 

 

[...] Il seguito alla prossima puntata

 

 

| | | 3ª puntata | | |   | | |

© Concerto di Valerio Fabbri, illustrazioni di Roberto Pagnani


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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