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Yoani Sánchez. Populismo alla cubana: conquiste, minacce e leadership
Fidel Castro in compagnia di Rafael del Pino e Armando Gali Menéndez (1947)
Fidel Castro in compagnia di Rafael del Pino e Armando Gali Menéndez (1947) 
16 Giugno 2017
 

Il leader parla per ore dalla tribuna, il suo dito indice impartisce ordini a un nemico invisibile. Quando il tono di alcune frasi lo richiede, una marea umana applaude e ammira estasiata l’oratore barbuto. Per decenni questi atti pubblici si sono ripetuti a Piazza della Rivoluzione dell’Avana e hanno modellato il volto del populismo rivoluzionario.

I lunghi discorsi di Fidel Castro rappresentavano tuttavia solo la parte più visibile del suo modo di governare. Erano i momenti dell’ipnotismo collettivo, costellati di promesse e annunci di un futuro luminoso che gli permisero di stabilire uno stretto legame con la popolazione, di istigare gli odi di classe e di accrescere il suo potere.

Castro è stato il prodotto più riuscito del populismo e del nazionalismo cubani. Mali che affondano le proprie radici nella storia nazionale e il cui terreno più fertile fu la tappa repubblicana (1902-1958). Quei venti portarono l’uragano in cui si trasformò un giovane nato nella località orientale di Birán, che si laureò come avvocato e riuscì a vantare il grado militare di Comandante Capo.

L’ambito politico in cui si formò Castro era ben lontano dall’essere un modello democratico. Molti dei leader di quella Cuba agitata della prima metà del XX secolo non spiccavano per proporre piattaforme programmatiche ai loro elettori. La pratica comune consisteva nello scambiare influenze per ottenere voti, oltre ad altre aberrazioni come rubare urne e commettere frodi.

A differenza del populismo repubblicano il cui proposito era la conquista del favore elettorale, il populismo rivoluzionario ebbe come meta abolire le strutture democratiche

Il giovane giurista ebbe a che fare fin da subito con figure il cui modo di agire sapeva più di criminalità che di trasparente esercizio dell’autorità. Assunse rapidamente molti di quegli ingredienti della demagogia che anni dopo gli sarebbero stati di grande utilità per sottomettere un’intera nazione.

A differenza del populismo repubblicano il cui proposito era la conquista del favore elettorale, il populismo rivoluzionario ebbe come meta abolire le strutture democratiche. A partire dal gennaio del 1959 la trama civica fu sistematicamente smantellata e le leggi rimasero assoggettate alla smisurata volontà di un uomo.

Per raggiungere quel sogno di controllo, il Líder Máximo convinse i cittadini che se avessero rinunciato a determinate “libertà borghesi”, tra cui la possibilità di eleggere i governanti e fare affidamento sull’alternanza del potere, avrebbero potuto godere di un alto grado di sicurezza.

Il cosiddetto Programma del Moncada tratteggiato in La Historia me absolverá (La storia mi assolverà) è un concentrato di queste promesse allo stile di un Robin Hood tropicale. Il pamphlet fu presentato come allegato di autodifesa di Fidel Castro durante il processo in cui venne denunciato per l’attacco armato alla principale fortezza militare di Santiago di Cuba nel luglio del 1953.

Fino a quel momento, come figura politica quell’uomo era praticamente sconosciuto. L’ardire che caratterizzò l’azione lo avvolse in un’aurea di eroico idealismo che lo collocò come leader nell’avvicendamento rivoluzionario di fronte alla dittatura di Fulgencio Batista.

Due anni dopo, il suo ingresso trionfale nella capitale e la sua carismatica presenza lo trasformarono nel beneficiario di un assegno di credito politico in bianco assicurato dalla maggior parte della popolazione

Nel testo, in cui descrisse i problemi di cui soffriva il paese, non disse mai che per risolverli sarebbe stata necessaria la confisca delle proprietà. Si limitò a spiegare il necessario per una riforma agraria che avrebbe eliminato il latifondo e ripartito le terre tra i contadini. Si trattava di proposte che gli fecero guadagnare rapidamente la simpatia dei più poveri.

Uscito dalla prigione, Castro era convinto che l’unico mezzo per rovesciare la dittatura fosse la forza. Organizzò una spedizione e aprì un fronte guerrigliero nelle montagne della regione orientale dell’isola. Due anni dopo, il suo ingresso trionfale nella capitale e la sua carismatica presenza lo trasformarono nel beneficiario di un assegno di credito politico in bianco assicurato dalla maggior parte della popolazione.

Il primo stratagemma populista del nuovo regime fu quello di presentarsi come democratico e negare qualsiasi tendenza che potesse accostarlo alla dottrina comunista. Mentre si mostrava propiziatore della libertà, espropriava i periodici, le stazioni radiofoniche e i canali televisivi.

Assestò un colpo mortale alla società civile instaurando una rete di “organizzazioni di massa” che raggruppavano vicini, donne, contadini, operai e studenti. I nuovi enti avevano nei loro statuti una clausola di fedeltà alla Rivoluzione e – ancora oggi – agiscono da puleggia di trasmissione dal potere alla popolazione.

La nuova condizione generò un potente apparato di repressione interna e un nutrito esercito in grado di dissuadere qualunque minaccia militare esterna

Le prime leggi rivoluzionarie, come la Riforma Agraria, il ribasso degli affitti, la Riforma Urbana e la confisca delle proprietà costituirono un riordinamento radicale del possesso di ricchezze. In un tempo molto breve lo Stato depredò dei loro beni le classi alte e si trasformò in uniproprietario.

Con l’enorme patrimonio custodito, il nuovo potere produsse milionarie inversioni di profitto sociale che servirono a raggiungere “l’accumulo originale del prestigio”.

Il sistema socialista proclamato nell’aprile del 1961 affermò fin dai suoi inizi il carattere irreversibile delle misure prese. Preservare le conquiste raggiunte richiedeva l’istituzione di un sistema di terrore supportato da una struttura legale che avrebbe impedito ai vecchi proprietari di recuperare ciò che era stato loro confiscato.

La nuova condizione generò un potente apparato di repressione interna e un nutrito esercito in grado di dissuadere qualunque minaccia militare esterna. Le sbarre più resistenti della gabbia in cui milioni di cubani rimasero intrappolati vennero innalzate in quei primi anni.

Al binomio di una conquista necessaria e di un leader indubbio, per completare la santissima trinità del populismo rivoluzionario, si aggiunse la minaccia di un nemico esterno.

 

Le conquiste

In quei primi anni le principali conquiste si focalizzarono sull’educazione, sulla sanità e sulla sicurezza sociale. L’accentramento economico permise alla nuova élite dominante di stabilire ampie gratuità e di distribuire sussidi o privilegi in cambio di fedeltà ideologica.

Come in ogni populismo che giunge al potere, il Governo aveva bisogno di plasmare le coscienze, di imporre la propria versione della storia e di prendere dai laboratori universitari persone che applaudissero molto e discutessero poco.

Nel 1960 l’isola era uno dei paesi con la minor percentuale di analfabeti in America Latina, eppure il Governo convocò migliaia di giovani da zone remote perché imparassero a leggere e a scrivere. La partecipazione a questa iniziativa fu considerata un merito rivoluzionario e si vestì di tinte eroiche.

Il testo dell’abbecedario che serviva a insegnare le prime lettere era chiaramente propagandistico e gli alfabetizzatori si comportavano come dei commissari politici che al leggere la frase “Il sole sorge a est” dovevano aggiungere “e dall’est arriva l’aiuto che ci offrono i paesi socialisti”.

Terminato il processo, ebbe inizio un programma massiccio di borse di studio secondo metodi castristi, che consistevano nell’allontanare gli studenti dall’influenza della famiglia. Prese il via anche la formazione di massa dei maestri, si costruirono migliaia di scuole in zone rurali e i centri didattici di gestione privata entrarono a far parte del registro del Ministero dell’Educazione.

Il fatto che sull’isola non ci fosse un solo bambino che non andasse a scuola si trasformò in un paradigma illuminante che non lasciava intravedere ombre

Da questo riassetto sarebbe dovuto nascere “l’uomo nuovo”, senza “residui piccolo borghesi”. Un individuo che non aveva conosciuto lo sfruttamento di un padrone, non aveva pagato per avere del sesso in un bordello né aveva sperimentato l’esercizio della libertà.

Il fatto che sull’isola non ci fosse un solo bambino che non andasse a scuola si trasformò in un paradigma illuminante che non lasciava intravedere ombre. Ancora oggi il mito dell’educazione cubana è brandito dai difensori del sistema per giustificare tutti gli eccessi repressivi dell’ultimo mezzo secolo.

Il monopolio statale trasformò il sistema educativo in un laboratorio di indottrinamento politico e la famiglia fu relegata a un ruolo di mera cura dei figli. La professione del maestro venne banalizzata a gradi estremi e i costi per mantenere questo gigantesco apparato divennero insostenibili.

Molte delle conquiste raggiunte erano impraticabili nel contesto dell’economia nazionale. I riconoscenti beneficiari non avevano modo di conoscere il costo elevato che queste campagne costituivano per la nazione. Il paese sprofondò in un inesorabile impoverimento e nel deterioramento delle sue infrastrutture.

Per decenni i mezzi informativi in mano al Partito Comunista contribuirono a occultare questi eccessi. Ma con la disintegrazione dell’Unione Sovietica e la fine degli abbondanti sussidi che il Cremlino inviava all’isola, i cubani si trovarono faccia a faccia con la propria realtà. Molti di quei presunti vantaggi sfumarono o entrarono in crisi.

 

Il líder máximo

Uno dei tratti distintivi del populismo è la presenza di un leader in cui si ripone una totale fiducia. Fidel Castro riuscì a convertire questa fede cieca in ubbidienza e culto alla persona.

L’omologazione del leader con la Rivoluzione e di questa con la Patria diffuse l’idea che qualsiasi oppositore al Comandante Capo fosse un “anti-cubano”. I suoi adoratori lo consideravano un genio ma nei suoi lunghi discorsi risultava difficile trovare un nucleo teorico da cui si potesse estrarre un apporto concettuale.

Nell’oratoria del Máximo Líder il suo carattere istrionico, la cadenza della sua voce e il suo modo di gesticolare giocavano un ruolo preponderante. Fidel Castro divenne il primo politico mediatico della storia nazionale.

La buona volontà fu forse il tratto essenziale della sua personalità e il marchio del suo lungo mandato. Raggiungere gli obiettivi al prezzo necessario, non arrendersi di fronte ad alcuna avversità e considerare ogni sconfitta un insegnamento che avrebbe portato alla vittoria gli servirono per conquistare una legione di castristi. La sua ostinazione aveva tutta l’aria di uno spirito agonistico che è incapace di riconoscere le sconfitte.

I termini per raggiungere il futuro luminoso promesso dalla Rivoluzione potevano essere di volta in volta rimandati grazie al prestigio politico apparentemente inesauribile di Castro. Chiedere al popolo di stringere la cinghia per poter raggiungere il benessere si trasformò in uno stratagemma politico sistematico per poter guadagnare tempo.

Fece promesse alquanto astratte, come che il pane sarebbe arrivato con la libertà, e altre più precise, dicendo ad esempio che il paese avrebbe prodotto talmente tanto latte che nemmeno se la popolazione fosse triplicata avrebbe potuto consumarlo tutto. Sull’isola avrebbero realizzato lo zoo più grande del mondo oppure il socialismo e il comunismo si sarebbero potuti costruire insieme.

Nel dicembre del 1986, quando ormai erano trascorsi 28 anni di tentativi falliti, Fidel Castro ebbe l’audacia – o la sfacciataggine – di proclamare davanti all’Assemblea Nazionale il più demagogico dei suoi lemmi: “E ora costruiamo il socialismo!”

 

Il nemico

Generalmente i regimi populisti, per mantenere accesa la fiamma emotiva, hanno bisogno di un certo grado di tensione, di belligeranza permanente. Per questo non c’è niente di più indicato dell’esistenza di un nemico esterno. Ancora meglio se è potente e stringe alleanze con gli avversari politici.

Fidel Castro aveva stabilito chi sarebbe stato questo nemico fin da quando si trovava nella Sierra Maestra a guidare il suo esercito di guerriglieri. In una lettera datata giugno del 1958 scrisse: “Quando questa guerra finirà, ne inizierà per me una molto più lunga e importante; la guerra che andrò a fare contro di loro (gli americani). Mi rendo conto che questo sarà il mio vero destino”.

Tra il mese di aprile e la fine di ottobre del 1960 gli scontri tra Washington e l’Avana si intensificarono. L’espropriazione di grandi appezzamenti di terra in mano a compagnie statunitensi, la sospensione della quota di zucchero di cui godeva l’isola, la nazionalizzazione delle imprese nordamericane con base a Cuba e l’inizio dell’embargo per la merce proveniente dal nord sono solo alcuni tra i più importanti.

In quello stesso lasso di tempo il vice primo ministro sovietico Anastas Mikoyan si recò in visita all’Avana, le relazioni diplomatiche con l’URSS vennero ristabilite e Fidel Castro rilasciò un’intervista a New York con Nikita Jruschov, che arrivò a dire: “Io non so se Castro è comunista, ma io di certo sono castrista”.

Agli occhi del popolo la grandezza di Fidel Castro cresceva e incominciava a bordarsi di sfumature da leader mondiale. L’esacerbazione del nazionalismo, un’altra caratteristica dei populisti, raggiunse la sua massima espressione quando Cuba iniziò a essere mostrata come il piccolo David di fronte al gigante Golia.

L’esacerbazione del nazionalismo, un’altra caratteristica dei populisti, raggiunse la sua massima espressione quando Cuba iniziò a essere mostrata come il piccolo David di fronte al gigante Golia

L’arroganza rivoluzionaria, incoraggiata dalla convinzione che il sistema applicato a Cuba dovesse estendersi a tutto il continente, fece credere a molti che fomentare la Rivoluzione oltre le frontiere non fosse solo un dovere, ma un diritto supportato da una verità scientifica.

La radice populista di questo pensiero “liberatore di popoli”, seppur avvolto in vesti di disinteressato internazionalismo rivoluzionario con altri popoli con i quali si supponesse avere un debito storico, portò decine di migliaia di soldati cubani a combattere in Algeria, Siria, Etiopia e Angola in quanto parte degli interessi geopolitici che l’Unione Sovietica aveva in Africa.

Il nemico non era più soltanto “l’imperialismo nordamericano” ma vi si aggiunsero i razzisti sudafricani, i colonialisti europei e qualunque altro elemento che nel tabellone internazionale si sarebbe potuto trasformare in una minaccia alla Rivoluzione.

Convinti, come il gesuita Ignacio de Loyola, del fatto che “in una piazza assediata la dissidenza è tradimento”, ogni atto di opposizione interna venne identificato come un’azione per sostenere il nemico e per la propaganda ufficiale tutti i dissidenti meritavano di essere considerati “mercenari”.

Tuttavia, il principio del disgelo diplomatico tra Cuba e gli Stati Uniti alla fine del 2014 ha fatto vacillare la tesi di un permanente pericolo di invasione. La morte di Fidel Castro, il declino delle forze di sinistra in America Latina e l’annuncio del ritiro dal potere di Raúl Castro nel febbraio del 2018 svigoriscono ciò che resta del populismo rivoluzionario.

D’altra parte, i più giovani hanno una percezione meno riconoscente e più critica di quelle conquiste nel campo dell’educazione e della sanità che a suo tempo furono presentate come un generoso dono del sistema.

La morte di Fidel Castro, il declino delle forze di sinistra in America Latina e l’annuncio del ritiro dal potere di Raúl Castro nel febbraio del 2018 indeboliscono ciò che resta del populismo rivoluzionario

Il ripresentarsi di notevoli differenze sociali sorte a partire dall’improrogabile accettazione delle regole del mercato e della crescita del “settore non statale” dell’economia – le autorità si rifiutano di chiamarlo “settore privato” – hanno reso irripetibili i lemmi dell’egualitarismo grossolano sostenuto da quel discorso ideologico che giustificava l’obsoleto sistema di razionamento dei prodotti alimentari.

Ristoranti di alta cucina e hotel con quattro o cinque stelle, un tempo a uso esclusivo dei turisti, sono oggi alla portata di una nuova classe. Non si è nemmeno tornati a parlare dell’eliminazione dello sfruttamento dell’uomo per l’uomo, bandiera essenziale del socialismo marxista-leninista.

La convinzione largamente condivisa che il paese non abbia via d’uscita è una delle molle che più hanno stimolato l’emigrazione negli ultimi anni. Questa mancanza di speranza verso il futuro però, combinata a una ferrea repressione, limita anche il lavoro dell’opposizione.

Il sistema che una volta visse dell’entusiasmo si mantiene ora in virtù della riluttanza. La cosiddetta generazione storica non arriva a una dozzina di ottuagenari sulla via della pensione e nelle nuove generazioni si nota più inclinazione all’imprenditoria che alle tribune. I nipoti di quei populisti hanno oggi più talento per il marketing che per gli slogan.

 

Yoani Sánchez

(da 14ymedio, 6 giugno 2017)

Traduzione di Silvia Bertoli


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