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Sandro Fancello. Dieci capitoli sul Sessantotto. 3 e 4 
La lotta armata e la strategia della tensione in Italia da Valle Giulia al 1970
12 Luglio 2014
 

CAP. 3 Il 1969. Inizia “l’autunno caldo”.

 

I primi mesi del 1969 apparvero subito turbolenti. L’11 aprile si registrò in tutto il Paese uno sciopero generale dei metalmeccanici. Il 3 luglio a Torino avvennero gravi scontri tra operai della Fiat in sciopero e forze dell’ordine. Il problema principale fu quello della ristrutturazione della Fiat e di altre fabbriche del Nord. Il 5 luglio, il Presidente del Consiglio Mariano Rumor, si dimise e il 5 agosto formò il suo secondo Governo.

Tra il settembre e il dicembre del 1969 – ricorda Sergio Zavoli in La Notte della Repubblica – la questione operaia esplode con una forza che né imprenditori né operai avevano previsto. Comincia il cosiddetto “autunno caldo”. Ha sullo sfondo il rinnovo contemporaneo di 32 contratti collettivi di lavoro. Oltre 5 milioni di lavoratori dell’industria, dell’agricoltura, dei trasporti e di altri settori sono decisi a fare sentire il peso delle loro rivendicazioni. La combattività dei lavoratori si accentua con l’emergere di una figura nuova: il cosiddetto operaio-massa, generalmente giovane, meridionale, non specializzato, addetto alla catena di montaggio, più combattivo del tradizionale operaio di mestiere.1

Tuttavia gli aspetti più preoccupanti circa il clima sociale di quel periodo riguardarono in modo particolare gli episodi del 25 aprile 1969 avvenuti a Milano presso la Fiera Campionaria e alla stazione di Milano. Due bombe infatti provocarono il ferimento di 19 persone. Il 9 agosto, su otto treni che viaggiarono su diverse aree geografiche del Paese, esplosero otto ordigni. Il 28 settembre iniziò l’“autunno caldo” con grandi manifestazioni e lotte operaie in tutto il Paese. Ha scritto Giuseppe Mammarella in L'Italia Contemporanea (1943-1992):

Nell’ottobre del 1969 la produzione scendeva dell’8 per cento rispetto a quella dell’anno precedente e generalmente l’“autunno caldo” avrà l’effetto di dimezzare il ritmo di incremento produttivo dell’industria italiana, con effetti negativi sul prodotto nazionale lordo il cui aumento per il 1969 rimaneva attorno al 5,5 per cento invece del 6,8 delle previsioni, che pure avevano tenuto conto delle presunte perdite in rapporto alle agitazioni per il rinnovo dei contratti.2

È vero che i salari italiani di quel periodo erano tra i più bassi dell’Europa Occidentale ed è vero inoltre che i sindacati mirarono all’approvazione di una moderna legislazione sul lavoro poiché il lavoro in fabbrica risentiva sostanzialmente di una normativa di tipo padronale. Tutto ciò non bastò però a spiegare il clima che andava delineandosi. Nel numero di luglio di una rivista quale Quaderni piacentini ad es. si misero in evidenza i limiti e le contraddizioni del capitalismo richiamando così i principi fondamentali del marxismo e del leninismo circa la lotta di classe. Nella sinistra estrema ed extraparlamentare vi furono vari intellettuali poi che parlarono, dibatterono e scrissero apertamente sulla lotta di classe. Le tensioni si delinearono anche all’interno del PCI in relazione al clima sociale che si stava prospettando. Il gruppo del Manifesto3 ad es. fu espulso dal PCI in quei mesi (26 novembre) proprio perché sosteneva, contro la linea “morbida” della gestione Longo-Berlinguer, una più incisiva azione politica e rivoluzionaria a sostegno del proletariato. Le fabbriche quindi si candidarono a divenire centri e luoghi di diffusione di ideologie sempre di più antiimperialiste e anticapitaliste. Per comprendere l’evoluzione dell’organizzazione della lotta armata sotto l’aspetto politico militare tuttavia è necessario leggere i primi documenti del Cpm (Collettivo politico metropolitano), un’organizzazione della sinistra extraparlamentare milanese. L’8 settembre 1969 venne pubblicato il primo documento. Tuttavia in esso però non vi era ancora un carattere violento e di lotta armata. Uno dei fondatori fu Renato Curcio.

Il 19 novembre 1969, in occasione di uno sciopero per la casa indetto dalla Cisl al Teatro Lirico di Milano, vi fu uno scontro cruento tra il corteo della sinistra extraparlamentare e la Polizia. Ricordano Indro Montanelli e Mario Cervi nell’Italia degli anni di piombo:

Intervenne, disorientata dall’imprevisto, la polizia, si accesero scaramucce. Gli estremisti bersagliarono jeep e jeepponi della polizia con ogni sorta di “armi improprie”: in particolare con tubolari d’acciaio presi da un vicino cantiere edile. Rimase ucciso, al volante della sua jeep, un poliziotto ventiduenne, Antonio Annarumma, avellinese, figlio d’un bracciante agricolo. Secondo gli inquirenti, l’agente era stato colpito alla testa da un oggetto pesante, probabilmente un pezzo di tubo d’acciaio. Mario Capanna sostenne, e tuttora sostiene, che “la magistratura non è mai riuscita a stabilire se Annarumma morì perché colpito al capo da un corpo contundente lanciatogli contro o perché, andato a cozzare alla guida del suo automezzo, batté mortalmente la testa.4

 

 

CAP. 4 La strage di Piazza Fontana.

 

Fu però la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, che avvenne alle ore 16:37 presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, a rappresentare non solo l’azione stragistica del gruppo neofascista di destra (Ordine Nuovo) ma anche il primo grande episodio nella Storia della Repubblica Italiana di depistaggio, (inchieste deviate) infiltrazioni e di coinvolgimento da parte dei Servizi Segreti dello Stato (SISDI). A partire da questa data si parlerà infatti di “strategia della tensione”. Oggi è chiaro che non fu solo una bomba a esplodere ma due, collocate (e collegate) in due valigette nere. Le bombe provocarono una vera e propria strage: 17 morti e 89 feriti. Negli anni si sono succedute varie inchieste sia a carico dei gruppi anarchici sia a carico di gruppi di destra. Il 12 marzo del 2004 si è concluso l’ultimo processo sulla Strage di Piazza Fontana. La Corte d’Appello di Milano dopo 35 anni ha emesso una sentenza di assoluzione nei confronti di Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, neofascisti di Ordine Nuovo del Veneto “per non aver commesso il fatto”. La Strage di Piazza Fontana quindi verrà ricordata come “una strage senza colpevoli”. Nel maggio del 2005 la Corte di Cassazione ha definitivamente accertato che la Strage fu realizzata da un gruppo neofascista costituitosi a Padova e appartenente a Ordine Nuovo, guidato da Franco Freda e Giovanni Ventura che però non sono più processabili poiché assolti dalla sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bari dell’agosto del 1985. Una vera e propria vergogna.

Un altro ordigno, inesploso, fu scoperto poco prima in una valigetta nera abbandonata alla Banca Commerciale Italiana, in Piazza Della Scala e veniva fatto brillare in serata. Altre tre bombe esplosero a Roma (una alla Banca Nazionale del Lavoro, due al Vittoriano), 17 i feriti. Almeno per un paio d’anni tutte le principali inchieste sulla strage di Piazza Fontana seguirono una pista unica e sbagliata: quella che risaliva ai gruppi degli anarchici milanesi e al circolo anarchico romano denominato 22 marzo di cui il principale indiziato risultava essere il ballerino Pietro Valpreda. Per alcuni anni Pietro Valpreda sarà additato come uno dei responsabili principali della Strage di Piazza Fontana. Ben presto si scoprirà però che le inchieste partite dalle Questure di Milano e Roma sugli anarchici presentavano forti “contraddizioni e zone d’ombra” e le prove a loro carico non reggevano. Emergerà infatti che all’interno del Circolo 22 marzo vi erano un agente “infiltrato” dei servizi segreti, un membro di estrema destra e un poliziotto “infiltrato”. In seguito tutti gli anarchici verranno assolti in via definitiva. Giorgio Galli, nel suo documentato lavoro sulla lotta armata, ricorda come Renato Curcio...

...fermato già il pomeriggio di Piazza Fontana, ben conosciuto e rilasciato senza neanche essere interrogato, è il segno che gli apparati di sicurezza stanno seguendo la situazione; il salto dal Collettivo all’ipotesi di lotta armata testimonia di un suo parziale ma esistente insediamento sociale. Sono, come già detto, i due fattori che intrecciandosi formano la chiave interpretativa del terrorismo nostrano, e che, da Piazza Fontana in poi, accompagneranno la storia delle Br.5

La strage di Piazza Fontana quindi pose il Cpm milanese di fronte già a una scelta di tipo operativa infatti, ricorda ancora Galli, citando Renato Curcio nell’intervista a Mario Scialoja, come...

...verso la fine di dicembre, con una sessantina di delegati del Collettivo, ci riunimmo nella pensione Stella Maris di Chiavari. Dopo due giorni di dibattito decidemmo di trasformarci in un gruppo più centralizzato: che chiamammo Sinistra proletaria. E nel documento elaborato, il cosiddetto “Libretto giallo”, introducemmo per la prima volta una riflessione sull’ipotesi della lotta armata.6

 

 

Sandro Fancello

 

 

1 Sergio Zavoli, La Notte della Repubblica, Arnaldo Mondadori, Roma 1992; cit. anche in Indro Montanelli e Mario Cervi, L’Italia negli anni di piombo, Rizzoli, Milano 1991, pagg. 77-78.

2 Giuseppe Mammarella, L’Italia Contemporanea (1943-92), il Mulino, Bologna, pag. 347.

3 Del gruppo del Manifesto, prima come rivista e poi come quotidiano, facevano parte alcuni dirigenti “giovani” quali Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli.

4 I. Montanelli e M. Cervi, L’Italia negli anni di piombo, cit., pag. 83.

5 Giorgio Galli, Piombo Rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 ad oggi, Baldini-Castoldi-Delai, Milano 2004, pag. 9.

6 Renato Curcio, A viso aperto. Intervista di Mario Scialoja, Mondadori, Milano 1993, ora cit. anche in G .Galli, Piombo Rosso..., cit., pag. 9.


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