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Maria Paola Forlani. Les musiques de Picasso
26 Maggio 2020
 

Sarà capitato a ognuno di noi chiedersi: ma cosa ha diverso la musica dalle altre arti?

Per esempio che differenza c’è tra la musica, la pittura, la scultura o la letteratura? La prima differenza che salta agli occhi è che la pittura, la scultura o la letteratura rispetto alla musica sono arti statiche, vale a dire le opere rappresentate sono degli oggetti immobili, definiti e univoci al contrario la musica è un costante divenire e mutare nel tempo.

 

 

Picasso è sempre stato attratto dalla musica, non c’è dubbio. Ma quale era il genere che più amava? E come si è tradotta questa passione da lui sperimentata anche attraverso l’analisi di strumenti quali, soprattutto, chitarre, violini e mandolini L’esposizione parigina Les musiques de Picasso”, alla Cité de la musique a cura di Cécile Godefroy (aperta fino al 16 agosto), intende rispondere a questi ed altri quesiti per svelare componenti non ancora indagate dell’incredibile creatività dell’artista spagnolo.

Una pipa, un bicchiere, una bottiglia della birra preferita -marca Bass-, un asso di fiori e due dadi come simbolo della sorte. E una chitarra a forme di cuore che virtualmente avvolge tutto. In alto uno spartito senza note, in basso una scritta grande in stampatello: «MA JOIE». L’anno è il 1914, la guerra si avvicina ma Picasso è innamorato e il refrain di una canzonetta cantata dal popolare Harry Fragson si trasforma così nella sua dichiarazione d’amore.

Come era fatto, dunque, l’universo musicale del genio indiscusso dell’arte del Novecento? Il percorso dell’esposizione permette di seguire tutta la vita e la carriera dell’artista in modo cronologico e tematico, riunendo molte opere che testimoniano il suo legame costante con la musica, così si può notare come il rapporto si sia sviluppato nel corso degli anni, degli spostamenti dell’artista e delle sue relazioni sociali. Tutti i periodi della sua carriera sono rappresentati perché la musica ha sempre accompagnato Picasso, sia nelle sue opere che nelle sue amicizie.

Eppure Picasso non amava la musica o almeno così sosteneva lui stesso. «Quando si parla di arte astratta si dice sempre che è come la musica, E quando vogliamo dire bene di qualcosa lo paragoniamo alla musica. Tutto diventa musica». Certo è vero che l’uomo e l’artista non furono mai contagiati dalle note classiche, nonostante l’amicizia con Stravinkij. Ma un’altra musica, quella popolare, quella che si suonava nei cabaret parigini, che veniva dalle chitarre spagnole, dai ritmi incalzanti dei suonatori di strada e dagli accompagnamenti sonori della corrida, lo attirava come una calamita. E succede che nell’iniziale elaborazione del linguaggio cubista la musica resti assente, è evidente come questa entri con forza nelle opere degli anni successivi. Saranno soprattutto le chitarre, i violini e i mandolini a essere osservati, sezionati e analizzati in numerose composizioni, non tanto come strumenti “parlanti” che provocano emozioni, quanto come elementi di una sperimentazione senza freni.

Smontata, appiattita o ricomposta nelle forme di un assemblaggio di fortuna, la chitarra è l’oggetto che l’artista scompone di più nei vari pezzi – rosone, cassa, talvolta armonica, colli e tasti – al fine di ristabilire “l’idea” più liberamente. Non solo, per meglio comprendere questo “utensile” Picasso che non sapeva suonare, tappezzava le pareti del suo atelier con una serie di strumenti a corda, mentre altri ne fabbricava lui. Furono loro, chitarre e mandolini appesi come quadri, a fornire l’occasione per approfondire le nozioni di volume, di vuoto e di pieno, diventando un mezzo per “studiare” meglio gli oggetti reali, così poi da smembrarli sulla tela. Furono sempre loro a essere nella lista degli interpreti principali delle sue rivoluzionarie scenografie. Forse anche perché la chitarra, come il violino, ha forme sinuose che ricordano il corpo femminile e, come una donna, si anima se pizzichi le sue corde.

Anche i musicisti entrano nella sua opera. Sono per la maggior parte anonimi, figure solitarie e senza voce, identificate soltanto attraverso i loro strumenti.

Sono personaggi del circo e saltimbanchi che rappresentano figure universali ai margini della società, talvolta drammatizzati attraverso alcune infermità, come nel caso del Cantante cieco, una scultura in bronzo dei suoi anni giovanili. Artisti nomadi ma liberi. Liberi come un pittore. Come lui stesso, il grande Picasso, che spesso si identificava con il saltimbanco per eccellenza, Arlecchino, da sempre suo alter ego o controfigura. Lo troviamo anche in Parade, lo spettacolo allestito da Sergej Diaghilev, il direttore dei Balletti russi, di cui l’artista firmò i costumi e le scene. Dopo la seconda guerra mondiale le chitarre lasciano a poco a poco il posto ai flauti e agli strumenti a fiato con cui vengono accompagnati i fauni e i satiri che popolano le antiche leggende. E la musica continuerà, così, a stimolare la sua creatività.

 

M.P.F.


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