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Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia
Alberto Martini,
Alberto Martini, 'Ritratto di Wally Toscanini' 
24 Febbraio 2017
 

L’Art déco o arts déco, espressione francese (abbreviazione di arts décoratifs) usata per indicare uno stile affermatosi negli anni Venti del Novecento in tutto il campo delle arti applicate (dalla grafica all’arredamento), detto anche «stile 1925» o «stile anni Venti», fu una forma d’arte colma di vita energica, eclettica, moderna ed internazionale.

Art Déco trasse il nome e la consacrazione dalla grande Esposizione internazionale del 1925 a Parigi, dedicata, alle «arti applicate e industriali moderne». Per quanto concerne la grafica e le sue applicazioni, lo stile è caratterizzato dalla predilezione per la linea circonvoluta ma secca, per gli andamenti spezzati e angolosi, per i florealismi tendenti alla simmetria stilizzata e, nella produzione di mobili e arredi come nell’architettura, per le forme squadrate e geometriche. Determinante fu il contributo offerto alla definizione dell’Art Déco dall’avanguardia astratta, cubista, futurista e costruttivista. Se la genesi di molti stilemi Art Déco può essere ricondotta all’art nouveau (secessione viennese e Wiener Werkstӓtten in particolare), lo stile 1925 se ne distingue sul piano delle motivazioni, abbandonando ogni pretesa di socializzazione dell’arte e puntando su una produzione di lusso. Destinato alla borghesia ricca e arricchita del dopoguerra, si afferma nella moda e nel figurino (si pensi al sarto P. Poiret, alle stoffe e ai vestiti «astratti» di S. Delaunay), nella grafica pubblicitaria e d’arte (la cui figura dominante fu Erté), nell’arredamento, nell’oggetto decorativo, nei gioielli.

Centro di diffusione ed elaborazione del gusto Art Déco fu la Francia, ma contributi interessanti vennero anche dai paesi scandinavi e tedeschi, dagli Stati Uniti (dove il fenomeno assunse vaste proporzioni e interessò anche il campo dell’architettura come il grattacielo Chrysler a New York (1928).

Dopo le grandi rassegne dedicate al Novecento (2013) e al Liberty in Italia (2014), la Fondazione Cassa di Risparmio di Forlì aggiunge un nuovo tassello alla sistematica rivisitazione che va compiendo sulla produzione artistica italiana nell’epoca segnata dalle Grandi Esposizioni internazionali e dal vitale ma problematico rapporto tra arte e industria (“Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia”, Musei San Domenico, a cura di Valerio Terraroli, fino al 18 giugno).

Un omaggio ma anche un’immersione totale nelle mode e nei modi dello sfrenato ventennio tra le due guerre (1919-1939), che riporta in auge un periodo complesso della nostra storia, quando in Europa nasce una nuova tendenza del gusto che si diffonde a ogni aspetto delle attività creative. L’Art Déco è uno stile che fiorisce dalle ceneri delle sinuosità liberty, abbatte la fissità dell’ideologia simbolista e costruisce un linguaggio razionale, puntato sul progresso e il cambiamento.

Sebbene affondi le sue radici nel tessuto internazionale, l’Art Déco viene trattata in mostra con una declinazione soprattutto italiana.

Ma l’Italia non è certo seconda nel farsi paladina del nuovo stile nel mondo, basti ricordare che a Monza, a partire dal 1923, si tengono le prime biennali di arti decorative aperte non soltanto agli specialisti e ai collezionisti di nicchia, ma al largo pubblico, desideroso di dedicarsi a nuovi piaceri estetici dopo gli anni cupi della Grande guerra. Il fenomeno attraversa il decennio 1919-1929 con una produzione straordinaria di oggetti e forme decorative: dalle ceramiche di Gio Ponti alle fantasiose oreficerie di Ravasco, gli arredi di Buzzi, Lancia, Portaluppi e ancora di Venini, Fontana Arte e Martinuzzi. Dalle sete di Fortuny, Ratti e Ravasi ai magnifici arazzi in panno con cromatismi geometrizzanti di Depero. Per non parlare delle cosidette arti nobili, pittura e scultura, che risentono del nuovo gusto espressivo ereditato delle Secessioni mitteleuropee e dai movimenti d’avanguardia. Chi guarda a Klimt, chi a Picasso, chi si applica alle invenzioni futuriste come Balla e Severini, chi invece recupera l’antico attualizzandolo in forme novecentesche, per esempio Casorati, Martini, Cagnaccio di San Pietro, Bocchi, Bonazza, Oppi e Metlicovitz.

Come nel Liberty, anche nel Déco spesso la donna viene identificata come una sirena. Vittorio Zecchin appare tra i più ispirati: nei suoi mosaici, arazzi e vetri di Murano domina la donna-sfinge dallo sguardo fiammeggiante ispirata al tema faraonico, in auge a partire dal 1920 in coincidenza con la scoperta della tomba di Tutankhamon. Ma la regina del Déco è lei Tamara de Lempicka la pittrice scappata dalla rivoluzione bolscevica. La bellezza di Tamara, l’eleganza che l’ha sempre contraddistinta, la sua vita mondana e romanzesca la rendono ancor oggi l’affascinante simbolo di un’epoca, una sorta di icona del lusso e dello charme.

Le figure ritratte da Tamara sono imponenti, monumentali, icone di un preciso momento storico eppure astratte da ogni riferimento temporale, assolute e possenti come statue antiche. Soprattutto nei nudi tutti femminili. I suoi ritratti di una solennità nuova e modernissima che inquadrano personaggi belli e impassibili, lontani dalla brutalità del reale, sono diventati icone di quel mondo meraviglioso e affascinante in cui tutto, dall’automobile ai bicchieri, dai mobili ai piatti, è espressione di uno stile eclettico, internazionale seducente.

Alla mostra di Forlì, le “femmes fatale” dipinte da Lempicka: elegantissime e con una forte carica erotica, anche quando sono vestite, o meglio avvolte in abiti svolazzanti. Se si guarda il Ritratto di Ira P., si può comprendere il suo modo di trattare la tela: innanzitutto lo spazio è interamente occupato dal soggetto, che sembra addirittura starci stretto, come accade in certi quadri tardomanieristici. Non c’è aria, non c’è vuoto intorno, Tamara schiaccia le sue figure in una scatola che le contiene appena.

Inoltre la pittrice utilizza pochissimi colori: qui c’è una vera e propria sinfonia di grigi e bianchi interrotti solamente dal rosso delle labbra, dalle unghie laccate e dallo scialle. Tutto sembra fatto di una stessa materia metallica: dai fiori che Ira P. tiene in mano al drappeggio della veste, fino alla fronte investita da un fascio di luce.

Tamara è uno dei capisaldi del Déco, ed è una donna seducente, con il trucco forte, sfacciato, l’incarnato pallido, le ciglia pesanti, come la si vede nel celebre autoritratto a bordo di una Bugatti verde, eseguito nel 1929 per la rivista tedesca di moda Die Dame.

Della fatale bellezza di Wally Toscanini si sapeva nella Milano altolocata degli anni Venti. Nel ritratto che le fa Alberto Martini nel 1925 è presentata come la regina di Saba, vestita di veli giallo oro, in pendant con un copricapo “esotico” ispirato ai balletti russi di Djagilev.

Nei Musei di San Domenico il dipinto gareggia in bellezza con i ritratti cesellati di Erté, pseudonimo del designer di origine franco russo Romain de Tirtoff. La sua donna déco ha l’aria spregiudicata, porta capelli a caschetto, à la garçonne, veste Chanel e Poiret, s’ingioiella con bellissima bigiotteria, balla il charleston facendo tintinnare lunghe collane e fuma con sottili bocchini d’avorio.

 

Maria Paola Forlani


Foto allegate

Erté, testa di manichino per Pierre Imans in
Tamara de Lempicka,
Tamara de Lempicka,
Oscar Hermann Lamb,
Gio Ponti,
Gio Ponti,
Gio Ponti,
Isotta Fraschini,
Galileo Chini,
Achille Funi,
 
 
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