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Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova
16 Gennaio 2017
 

La mostra – allestita fino al 12 marzo 2017 alle Scuderie del Quirinale – racconta tutte le fasi di un importante pezzo di storia del nostro paese attraverso autentici capolavori provenienti dalle migliori collezioni italiane: da Raffaello a Tiziano, da Carracci a Guido Reni, da Tintoretto a Canova.

Ventotto agosto 1815: lo scultore Antonio Canova arriva a Parigi per restituire all’Italia i beni artistici sottratti da Napoleone in seguito al trattato di Tolentino del 1797. Dopo mesi di trattative, tra la fine del 1815 e il 1816, alcune delle opere rientrano in patria, dopo avventurosi viaggi via terra o via mare.

Un ritorno il più delle volte accolto dalla popolazione in festa.

Da questo momento l’Italia avrà quindi una coscienza sempre più forte del valore del suo patrimonio, ponendosi il problema della sua conservazione e della sua valorizzazione in modo sempre consapevole.

Sono passati 200 anni da quello straordinario ritorno a casa. Oggi l’avventura che vede in Europa un grande movimento di quadri e sculture, diretti prima a Parigi e poi in quegli stessi luoghi da cui erano stati trafugati, è raccontata, per quel che riguarda l’Italia, in un affascinante mostra intitolata “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova” a cura di Valter Curzi, Carolina Brook e Claudio Parisi Presicce.

Il primo piano del palazzo è occupato da alcune delle opere scelte dalle commissioni mandate da Napoleone nello Stato Pontificio, per decidere quali capolavori avrebbero potuto far parte del suo museo ideale, il nascente Louvre. Tutte rientrate dopo l’intervento di Canova. L’imperatore aveva un gusto ben preciso e non portava via niente che non fosse di qualità eccellente. Sceglieva con grande sapienza il suo bottino di guerra, o meglio di pace – perché era all’interno degli accordi che definivano la fine delle ostilità, che con grande furbizia, si “legalizzava” il furto. Quindi molti dei prestiti ottenuti in questa mostra sono di straordinaria bellezza.

Lo si vede dall’incipit, che vede La strage degli innocenti di Guido Reni, artista molto amato (e dunque molto sottratto). Il dilemma del Reni consiste nel «desiderio in lui acutissimo, di una bellezza antica, ma che racchiuda un’anima cristiana» (Longhi).

Egli torna all’ideale di bellezza assoluta del rinascimento, che, a sua volta, ha la sua più lontana origine non nel classicismo greco ma in quello romano, e che permane anche nel Seicento, trovando la sua formulazione nelle parole del teorico Giovanni Pietro Bellori, il quale, nella seconda metà del secolo, scriverà che, essendo gli oggetti creati dalla natura sempre imperfetti, «li nobili pittori… si formano… nella mente un esempio di bellezza superiore, ed in esso riguardando emendano la Natura» (1672). Accanto a Reni appare un gesso del Lacoonte. L’opera, che Plinio vide nel palazzo dell’imperatore Tito, venne alla luce, nella primavera del 1506, nelle rovine delle cosiddette Terme di Tito, sull’Esquilino a Roma. Secondo il mito, Lacoonte, sacerdote di Apollo, fu uno dei pochi che, diffidando del cavallo di legno lasciato dai greci sotto le mura di Troia, cercò di dissuadere i troiani dal portarlo dentro la città. Due serpenti, venuti dal mare, lo aggrediscono, mentre compiva sacrifici in onore di Poséidon, e lo stritolarono insieme ai due figli. Studi recenti sembrano dimostrare che i tre autori, Aghesàndro, Polydòro, Athenodoro, sarebbero eccellenti copisti dell’età di Tiberio e che l’originale sarebbe stato realizzato in bronzo. Riproposto in mostra in un calco del XIX secolo proveniente dai Musei Vaticani, aveva significato l’irrompere di un’antichità da cui non era escluso il pathos, la drammatizzazione dell’avvenimento. Ed ecco che, secoli dopo, questo contorcersi di braccia e di muscoli, arriva fino alla figura sul fondo del dipinto di Reni, quell’uomo che tira i capelli di una madre in fuga per difendere il suo bambino.

La strage di Reni giunge a Parigi da Bologna nel 1896, il Lacoonte fu trasportato su carro con 12 bufali al traino e arrivò in Francia con un vero e proprio corteo trionfale. Il mondo classico consentiva a Napoleone di considerarsi parte di quella storia, di autoincoronarsi erede dell’antica Roma.

A Parigi arriva quasi al completo ciò che aveva realizzato Raffaello. Sono i francesi a far nascere il mito dell’artista. Basti pensare a Ingres che lo considerava il più grande di tutti. Qui c’è un capolavoro come il Ritratto di Leone X con il cardinale Giulio de’ Rossi accanto ad una bella copia della Deposizione della Galleria Borghese, eseguita dal Cavalier d’Arpino. In questo caso non era stato trafugato l’originale perché il principe Borghese era cognato di Napoleone, ma anche perché per 13 milioni l’imperatore si era accaparrato – e per sempre – la sua meravigliosa collezione di marmi antichi. Nel frattempo, perché fosse dichiarata la sua origine culturale, si era portato a Parigi anche la Venere Capitolina e il Giove di Otricoli, altri due pezzi importanti dell’esposizione delle Scuderie.

Accanto alla pittura “ideale” bolognese di Reni, Carracci, Guercino, Domenichino, Albani presentati in mostra con pale d’altare di grande impatto e intensità, nel museo universale di Napoleone, quello in cui tutta l’Europa avrebbe dovuto identificarsi, non poteva mancare il colore della scuola veneziana: ecco l’agitazione di Tintoretto, la luce di Tiziano e la bellezza cromatica di Veronese.

Al piano di sopra delle Scuderie c’è la seconda puntata di questa storia, ovvero l’Italia che si accorge che il suo patrimonio ha valore civico. Con le opere già conservate nei depositi, dopo la soppressione degli ordini religiosi e con quelle rientrate si pensano ai musei come luoghi identitari. Tra i capolavori di queste sale ecco la Madonna con il Bambino di Cima da Conegliano, la Lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli realizzata da Tullio Lombardi nel 1525: un prestito importante, non era mai uscita dal Museo della città di Ravenna. Al centro della sala del secondo piano troneggia la Venere Italica di Canova che nell’intento dello scultore doveva onorare il genio dell’Italia. Vicino alla splendida scultura, come chiusura della mostra, troviamo un’opera particolare e suggestiva, il dipinto di Hayez dove l’Italia non ha le sembianze di una divinità, ma quelle di una fanciulla del popolo. Bella e con lo sguardo fiero, ma oltraggiata. Un’allegoria della nazione dolente dopo i fatti del 1848 e che invita ad una profonda riflessione ancora oggi.

 

Maria Paola Forlani


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