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Marisa Cecchetti. “La signora dei leoni” di Maria Teresa Landi e Luciana Tola
14 Agosto 2018
 

Maria Teresa Landi e Luciana Tola

La signora dei leoni

Giovane Holden, 2017, pp. 408, € 15,00

 

La signora dei leoni non è un’invenzione letteraria, ma si ispira davvero alla vita di una donna che, nei primi anni trenta del secolo scorso, ha avuto il coraggio di seguire il marito in Etiopia, inviato dal governo fascista a dirigere una miniera per la ricerca dell’oro, abbandonando le comodità della pensione di famiglia che gestiva insieme alla madre a Viareggio. Ma non si è fermata in Etiopia, l’Uganda è diventata poi la sua terra. Toni, la protagonista, abbandonata Fiorenzuola e Firenze dopo la morte del padre per un incidente sul lavoro, si è trasferita a Viareggio con la madre. Non manca loro la buona volontà e l’energia, tanto che la situazione economica gradualmente migliora. A Viareggio, allora città di pescatori che vedrà il suo sviluppo turistico insieme al trionfo del liberty nel dopoguerra, Toni trova anche l’amore, ma Clorindo è un semplice figlio di pescatori, distante come condizione sociale agli occhi della madre di Toni che sogna un buon partito per la figlia. Neppure la madre di Clorindo vede di buon occhio quella ragazza dai modi che considera troppo disinvolti, che sposerà un giovane di buona famiglia, Ferdinando, una promessa del fascismo, con destinazione Africa.

È là che Toni affronta fatiche e disagi impensati. Coraggiosa, sprezzate del pericolo, impara a cacciare per rifornire di carne i lavoratori della miniera. La terra d’Africa la conquista piano piano, e Viareggio, di cui sente comunque la nostalgia perché lì è rimasta la madre, non corrisponde più a quello che cerca e che vuole per la sua vita.

È lei che scopre i “tamburi reali” in un cunicolo nascosto nella foresta: “Qualcuno ha detto che il tam-tam è il vero sovrano dell’Africa, uno dei pilastri della sua unità culturale. Si ode nelle savane e nelle foreste, sempre, anche quando domina il silenzio, perché il tam-tam fa parte di questo continente, è la sua stessa voce”. Nel riconsegnarli al re, a Kampala, ne riceve in compenso la proprietà di un’isola sul fiume Kagera, l’isola di Toni. Arrivarci è un’impresa, bisogna escogitare strane carrucole sospese per traghettare le persone: “Con primitiva, geniale efficacia, trovarono il modo di traghettare tutti quanti infilati uno alla volta dentro grandi sacchi di iuta appesi alla corda che univa le due sponde, uso teleferica”. L’ambiente che offre è ineguagliabile. Per quell’isola Toni ha dei sogni: sogna un albergo per turisti ricchi, per botanici, per amanti della natura.

In Africa trascorre tutta la vita, vi attraversa il fascismo, la conquista italiana dell’Etiopia, la seconda guerra mondiale e in Uganda è fatta prigioniera dagli Inglesi. Grazie alla conoscenza delle lingue locali, al campo diventa interprete. E trova anche l’amore. La sua vicenda matrimoniale, pesante fino all’inverosimile, l’ha infatti portata a fuggire dal marito ed a rifugiarsi da un’amica.

L’isola è il suo obiettivo ma prima ci sono anni di lavoro duro, nella gestione di piantagioni, di tè, di canna da zucchero. All’isola è continuamente in lotta con la natura, perché la forza dell’acqua può riprendersi all’improvviso quello che lei ha costruito.

Toni si delinea come una donna eccezionale, libera: “Non sopporto le imposizioni. Quando qualcuno comanda provo un non so che e faccio il contrario” come in “una sorta di negritudine, un soprassalto di dignità, un rifiuto dell’oppressione”.

Ma non ha dimenticato la sua femminilità neppure in terra d’Africa, non ha fatto tacere il cuore, sempre aperta alle amicizie sincere e profonde.

La Landi e la Tola hanno ricostruito, romanzata, la personalità di Antonia, la signora che non aveva paura dei leoni: “la bestia incattivita si era scagliata contro uno dei miei, gettandolo a terra per poi sbranarlo con ferocia sotto gli occhi degli altri impauriti, che erano fuggiti in un baleno. Solo io ero rimasta e, imbracciato il fucile, avevo mirato, sparando con calma al leone, crollato sui resti del poveretto”.

Si ricostruisce il periodo storico, a cominciare dal 1913, per arrivare al clima difficile del primo dopoguerra, col serpeggiare del pensiero fascista capace di ottenere consensi sempre più ampi. Si respira la superba ed allora indiscussa superiorità del colonizzatore, la vantata superiorità della razza, il disprezzo diffuso per la gente d’Africa. Del resto il primo alto commissario britannico dell’Africa orientale si era espresso così: “Abbiamo qui la rara occasione di trovarci di fronte a una tabula rasa, un paese quasi intatto… nel quale possiamo fare quello che vogliamo”. E questo all’interno di una fase troppo lunga, dolorosa, condannabile, della nostra storia di Italiani e di Europei, di cui ancora oggi vediamo le tragiche conseguenze.

 

Marisa Cecchetti


 
 
 
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