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Wendy Guerra. Piccoli poteri
12 Ottobre 2014
 

Per cinque decenni a Cuba sono state emanate numerose leggi affinché il popolo avesse un accesso di massa alla cultura e il tutto è stato fatto nello stile epico, emergente e massivo caratteristico delle campagne di quei primi anni della Rivoluzione.

“Stiamo per scatenare una guerra contro l’incultura; stiamo per ingaggiare una battaglia contro l’incultura; risveglieremo un’inconciliabile querelle contro l’incultura, e ci batteremo contro di essa e affineremo le nostre armi”. Parlava così allora Fidel Castro Ruz, Primo Ministro del Governo Rivoluzionario e Segretario del PURSC, nelle sue parole conclusive alle riunioni con gli intellettuali cubani avvenute nella Biblioteca Nazionale i giorni 16, 23 e 30 giugno del 1961.

Nei decenni successivi venne attivato un enorme circuito di entità nazionali create appositamente per mettere in pratica un metodo collettivo di apprezzare, fare e relazionarsi con l’arte.

Le individualità continuarono a esistere, ma fu sempre più difficile poter creare con autonomia mentale, d’azione e con strumenti personali. L’arte elitaria o il creatore indipendente ebbero sempre meno spazio, la sofferenza dei suoi creatori andò aumentando. La maggior parte delle risorse andavano a rinsaldare la cultura come azione comunitaria. Fiorirono gruppi teatrali nelle montagne, all’interno delle fabbriche, proiezioni cinematografiche in luoghi segretissimi, nacquero i cosiddetti seminari letterari, le Case della Cultura e i cori nei centri di lavoro; insomma, quei progetti erano un vaso sociale comunicante e non un processo di creazione personale.

Grazie al sostegno di questa enorme fondazione nacquero migliaia di quadri politici e, tra questi, taluni “signori e padroni” di feudi o zone di potere che controllavano (in nome dello Stato) e con il proprio stile, istituzioni, categorie estetiche, condizioni tecniche o fisiche apposite per iscriversi o insegnare in determinate accademie o compagnie artistiche.

Si costituirono così, ufficialmente, i pregiudizi necessari alla fondazione di un determinato tipo di architettura, vennero truccati, camuffati e sofisticati i pregiudizi razziali, sessuali ed estetici, nacquero le retate contro determinati generi, nomi, attribuzioni, manifestazioni, modi di vestire, di vivere o relazionarsi, amarsi, esprimersi o pensare. Scaturì dunque la demonizzazione e la proibizione della musica interpretata o composta da quegli artisti forestieri che si erano espressi apertamente contro il processo cubano, censurarono la diffusione di ogni emigrante cubano e apparvero in tutte le emittenti radio e televisive del paese le liste nere dei personaggi residenti sull’isola disapprovati per i loro contenuti, forme dissimili o attitudini politiche eterogenee.

È così che, infine, si strutturò a Cuba la cosiddetta Politica Musicale.

La situazione nazionale andò peggiorando e la UMAP portò tutte queste proibizioni, congetture, accuse e ingiuste castrazioni al loro punto più culminante. L’isolamento e l’obbligo al lavoro forzato di molti intellettuali e artisti che “espiavano” lì le loro preferenze ideologiche, estetiche o sessuali.

Da bambina ascoltavo i miei genitori torturarsi per l’ingiustizia di esseri machiavellici (dai cognomi tristemente celebri) che impedivano di portare a termine un progetto o una semplice presentazione in nome della paura, della non conoscenza, dell’indolenza o dell’ignoranza.

Ricordo mia madre piangere, mentre fumava nascosta nell’armadio il giorno in cui le chiesi se Fidel era a conoscenza di ciò che loro stavano passando. Loro, gli intellettuali fidelisti, socialisti, i difensori della grande utopia. Ricordo perfettamente il volto di mia madre, una notte in particolare, quando alcuni poeti vennero attaccati in un cortile della città di Matanzas durante una tranquilla lettura di poesia in quel museo di provincia.

Ci vorranno molti anni prima di conoscere chi sapeva o non sapeva cosa. Per questo ci sono gli archivi storici, possiamo accedervi e scoprire ciò che non conosciamo di una nazione.

I genitori della mia generazione, quelli che io frequentavo nell’ambiente a me vicino, in quasi tutte le occasioni in cui accadevano fatti come gli atti di ripudio, la chiusura di collettivi teatrali o mostre d’arte, ci spiegavano ed enfatizzavano l’idea che Fidel non fosse al corrente di queste ingiustizie. La colpa era sempre del potere intermedio.

Questa razza di funzionari, al di là dell’enfatica e conclusiva sentenza dettata dal Comandante Capo: “Dentro la Rivoluzione, tutto; contro la Rivoluzione, nulla” ebbe il compito di scegliere ciò che era veramente rivoluzionario. La rivoluzione era oggetto di loro proprietà, della loro morale, delle loro congetture e delle loro idee politiche culturali, il grande metro di giudizio per avere successo o cadere in disgrazia.

Questi ‘degustatori’ e castratori di artisti supponevano, davano opinioni, valutavano e decidevano ciò che stava dentro o al di fuori della norma. L’astrazione rivoluzionaria si concretizzava dunque amputando tutto ciò che la visione di questi esseri terribili riteneva velenoso o minaccioso. Nessuno di loro fu in grado di comprendere la cultura al di là delle istruzioni o degli ordini per una sola ragione, per la maggior parte si trattava di licenziati da altri settori: militari frustrati, ingegneri incapaci, insegnanti senza vocazione che non avevano niente a che fare con la cultura, e il loro lavoro, allenamento o abitudine era il sospetto; per questo si trovavano lì; castigati.

Chi mise insieme, per decenni, questo sofisticato, perfetto cast?

Molti di loro non erano interessati al fatto che Silvio e Pablo riempissero le piazze cubane dopo averle fatte traboccare in ripetute occasioni in Argentina, se fosse stato per loro la voce di Carlos Varela ancora oggi non verrebbe trasmessa alla radio, non esisterebbe il Balletto di Camagüey, non sarebbe reale nemmeno l’esperienza del Festival di Varadero, il Festival Internazionale del Cinema o la Biennale dell’Avana.

Quanti progetti nati dentro la Rivoluzione e creati da giovani che studiavano e si formavano qui vennero fatti sparire o furono respinti perché catalogati come controrivoluzionari, elitari, capitalisti, decadenti, borghesi o esterofili?

Quanti esseri coraggiosi furono condannati all’esilio a causa della vessazione e della violazione dei loro più sacri diritti?

Ricordate il Balletto Teatro dell’Avana?

Ricordate Volumen I?

Ricordate il rogo delle marionette in diversi teatri del paese, incluso il Guiñol Nacional? La Parametración? Il Caso Padilla?

Chi ridà la parola alle voci messe a tacere, ai poeti e agli scrittori condannati al silenzio nel loro ambiente legittimo, nel paese in cui furono scritte quelle pagine soffocate in segreto, tanta era ed è ancora la paura, che alcuni decisero di non scrivere più e altri non riuscirono a ritornare alla loro essenza, non vogliono, non possono, alla meglio è troppo tardi. Alcuni di loro difendono o giustificano oggi i propri aguzzini. Altri continuano a scrivere perché è questo il modo migliore di superare la bestemmia.

È successo agli intellettuali ed è successo alla nazione intera?

Ma perché sto parlando al passato? Forse questi problemi non esistono più a Cuba?

Non stiamo continuando a lottare contro questi piccoli poteri che presumibilmente ci rappresentano e che quasi sempre costituiscono un muro di contenimento che ostacola la forma più attuabile di pubblicare, filmare, scrivere, parlare, negoziare, informare, fondare, e mettere in scena il dramma di questo teatro del miglior assurdo contemporaneo?

Non saranno queste autorità intermedie i prossimi “suonati” che una mattina verranno a sapere dal giornale ufficiale o dal portale del Ministero che sono stati mandati a casa a godersi il famoso Piano Pigiama (pensionamento completo, ndt)? Possiamo avere rispetto di persone che entrano ed escono senza avere nemmeno la facoltà di deciderlo?

Fino a quando dovremmo continuare a lesinare il diritto di intraprendere un cammino personale, autonomo, dopo aver vissuto mezzo secolo in Stato di resistenza e terrore per la riuscita delle nostre opere?

Paradossalmente la risposta a questo dramma l’aveva già Fidel nel 1961, quando in quelle parole di chiusura alla Biblioteca Nazionale, davanti a un folto gruppo di intellettuali cubani mise in chiaro:

(…) Ciò di cui c’è da temere non è questo presunto giudice autoritario, carnefice della cultura, immaginario, che qui abbiamo prodotto. Temete altri giudici molto più temibili: temete i giudici della posteriorità, temete le generazioni future che saranno, alla fine dei conti, le incaricate di dire l’ultima parola! (OVAZIONE)”.

 

Wendy Guerra

(Habáname, 19 settembre 2014)

Traduzione di Silvia Bertoli


 
 
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