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Fabiano Alborghetti trova Carla Saracino 
Cercando l'oro 27
Carla Saracino
Carla Saracino 
05 Marzo 2009
 

Itinerando, muovendo geograficamente dove abitano i buoni autori, Cercando l’oro della poesia sposta dalla Svizzera / Canton Ticino, luogo dove vive e scrive Flavio Stroppini, verso il Salento, terra di Carla Saracino (che però attualmente si divide tra Salento e Milano per motivi di lavoro)

 

Lo spazio è per la sola voce dell’autrice, messa a nudo senza la mediazione della domanda, autrice lanciata nel vuoto e che arriva a noi per mezzo di una autopresentazione, cui seguirà una scelta di testi e solo in ultimo una breve nota bio-bibliografia. (F.A.)

    

 

 

AUTOPRESENTAZIONE di Carla Saracino

 

Esiste la poesia se, prima, esiste la vita.

Vita e poesia sono talmente intrinseche da provocare, spesso, l’illusione del contrario. Eppure, il compimento è unico, la complicità eccellente e assoluta, direi elegante.

La poesia per me è sempre stata - e continua ad essere - una forma di eleganza, la più scanzonata e la più seria insieme. E non è mai un risultato, un fine, un’intenzione. La poesia è la vita che sa perfettamente esprimersi, secondo natura. Tutto ciò che avviene sul campo neutro (leale, spregiudicato) della natura facilmente ci offre l’accesso alla poesia.

Il carattere elitario della poesia -in cui io credo, poiché pochi sono poeti e ci vuol del talento persino per essere bravi lettori (diverso è il problema della diffusione: dovuta, necessaria) - forse deriva dal fatto che solo alcuni riescano, nel corso dell’esistenza, a riconoscere ciò che per natura deve, imprescindibilmente, avvenire.

 

Dunque, prima della scrittura, il dono frontale della riconoscenza.

 

Questo è ciò che nei miei lavori ho sempre desiderato esprimere

 

 

 

da I milioni di luoghi (LietoColle, 2007)

 

 

I milioni i luoghi

- Il neon dei vagoni e la notte diaccia sul vetro

anche se luci fuori ancora raggiano… -

 

Lo strano moto moro del motore

l’inconsistenza della potenza

quando è l’ultima la volta che siedi

a stimare fuori le temperature

le inabilità delle coincidenze …                          

 

Ripensi a quello che ne è venuto fuori,

a quanti sarebbero i passi, i metri, le oscillazioni;

 

il passaggio delle vite che non vivemmo,

i milioni di luoghi, i ghiaccioli dell’ora pomeridiana…

Ma inavvertitamente nelle camere d’aria

improvviso come un insoluto sollevamento

 

il clima porta un’idea, la soluzione

l’erba alta e un’impressione poco chiara

di massima ambizione.

 

Come sono le cose, come fanno a scomparire?

 

 

*

Tu muori

mentre io sono fuori,

per strade, cibo fritto

in un’aria quasi estiva.

C’è tanta gente intorno,

il clima è asciutto,

sembra non sia mai esistito, un clima.

Io vado verso un assoluto

tu muori.

Si vede a tratti come un cappello

che aspetta.

 

 

*

O morti delle sere d’estate.

Ecco il vostro alito

sopravvissuto.

Un gemello non vinto

dalla sepoltura

vi darà le forme d’una

appartenuta fortuna.

 

 

 

*

Io passerò

e nessuno proverà a resuscitarvi.

E ora che restate assorti

io vi compatisco.

 

 

 

*

Il passato – non della ricorrenza –

il passato di chi non descrive,

quello vuoto dell’umano

quello già schiuso sulla distrazione,

lo vidi milioni di volte senza

vivere un solo istante,

senza l’ausilio del movimento

o della creazione.

Un ibrido strano fra nascita e assopimento.

 

 

 

*

L’ambizione è una voce

periferica del dolore.

 

Questo è il pensiero se guardandoti

appari versata nel mattino tiepido

di luglio

tra le stoviglie cotte e un bikini steso.

 

 

 

*

Sto passando

e senza un rumore ossessivo

passo verso il resto

dell’aria che permane dopo di me.

Non si vedrà mai

chi è stato.

Eppure, si dirà, di qui un giorno

qualcosa è stato turbato

come uno strappo, una solida

interruzione, un finale tanto atteso.

 

 

 

*

Via, mentre fugge questa

elevata idea di sorpasso

incommensurabile, e la luce

e ne sta in consueta astinenza…

 

Ho immaginato fino a un costume,

un nuovo arnese, un prodigio della lealtà;

essa era lì, magnifica, nascitura e lesa

ma beata fin nelle esposizioni

mentre, svoltando un angolo o due,

ecco spariva, s’allontanava

io già la perdevo, di lontano,

rincasava essa stessa

nel suo verbo,

opponeva eccessi a grandi cure.

Inutile dirla, la mia delusione.

La mia nota incolumità rimasta 

a vacillare.

 

 

 

da 14 fiabe ai 4 venti (Lupo editore)

 

1 – I quattro venti

 

 

In una casa sul mare, tanto piccola da potervi entrare

col solo dito della mano, viveva un’anziana donna,

madre di tre figli caduti nella guerra dei Quattro Venti.

L’anziana aveva una salute molto debole e mangiava

davvero poco. Da quando ai suoi figli era toccato in

sorte di morire ancora giovani e nel fiore delle forze,

ella aveva perduto anche le sue. Così magra, così sottile,

così moribonda, la si vedeva camminare lentamente,

a piccoli passi, solo nel pomeriggio, quando andava a

prendere l’acqua dolce dal pozzo che stava ai confini del

mare. Rincasava presto, appena in tempo per richiudere

la porta dietro di sé, allorché cominciavano a sbuffare

le Tempeste Raccolte.

Il luogo dove abitava l’anziana era infatti posto al

centro di tutti i capricci del clima. Proprio sul capo della

casa pendeva una parte di cielo che pareva una brace.

Noto fin dall’antichità sulle carte degli avventurieri per

essere il punto di raccolta di tutti i venti, questo lembo di

terra desolato, in cui passava i suoi giorni la donna, era

spessissimo attraversato da vortici di aria così grossi e

aggressivi da far rabbrividire anche i più temerari.

Il piccolo ricovero dell’anziana aveva resistito, nel tempo,

a tutte le calamità e nessuno mai scoprì come. Forse,

si raccontò molto tempo dopo, radici fantastiche stringevano

le sue fondamenta; forse, la mano sotterranea d’un

gigante buono teneva ancorata la casupola al terreno.

Una sera di quelle più buie e maledette, una sera in

cui ai venti si stava unendo ostinata la pioggia battente

ed ogni cosa si oscurava nel colore, ogni pianta si piegava

su se stessa e i fiori e i frutti scomparivano dalle strade

e dai campi, la donna arrostiva, nell’angolo misero

della cucina, sopra una griglia di tizzoni crepitanti, pane

e cipolle. Quando sentì bussare tre volte alla porta. Ebbe

un sussulto di paura.

«Chi è?», chiese con voce piccina.

«Uuuuuhhhhhhhh…Uuuuuhhhhh… Sono il Vento del

Nord. Apri questa porta o la schiaccerò col mio soffio!».

La poveretta rabbrividì quando riconobbe il soffio gelido

del Vento del Nord che penetrava dalle fessure delle

finestre, ma aprì lo stesso la porta.

Si ritrovò davanti a un grosso vortice nero e roteante

che emanava sbuffi terrificanti e freddissimi, i suoi occhi

non erano occhi, ma cerchi vuoti e biancastri, le sue

labbra sottili e grigie mostravano un ghigno orribile che

avrebbe fatto svenire chiunque.

L’anziana dovette mantenersi alla maniglia della porticina

stava per volar via con la sua gonna che era già

diventata gonfia come una mongolfiera.

«Cosa cerchi nella casa d’una povera donna?», ebbe

la forza di chiedergli.

«Ah, ah, ah…», rise tronfio il Vento del Nord con quel

ghigno spaventevole che si ritrovava e ingrossandosi

tutto, «vuoi farmi credere di non ricordare? Non ricordi

che i tuoi figli osarono sfidare me e i miei fratelli all’alba

del Giorno delle Meraviglie?».

«Nel Giorno delle Meraviglie ai miei figli fu ordinato di

compiere la vostra uccisione. Ed essi obbedirono, anche

se con poveri mezzi, ma con tanto coraggio da vendere.»

«Ah, ah, ah», rideva quello, pieno di sé e magnifico,

«davvero pensaste di poter vincere l’ira dei miei fratelli?

La superbia del Vento dell’Est, il bollore del Vento

del Sud, la grandezza del Vento dell’Ovest? Che presunzione,

donna, ebbero i tuoi figli. Nulla può abbattere il

dominio delle Tempeste Raccolte!».

Poi, dopo una pausa e qualche folata gelida che a ogni

respiro faceva divenire ghiaccio ogni cosa gli si trovasse

intorno, aggiunse: «I tuoi figli giacciono nei tre punti cardinali

in cui furon sbattuti dai Venti. Tuo figlio il più grande

precipitò a Est ed è oggi schiavo nelle terre del Marajà. Tuo

figlio il medio precipitò a Ovest e vive sospeso su un ponte

a testa in giù sopra una voragine di acque profonde. Tuo

figlio il piccolo è chiuso nella prigione ghiacciata del Regno

Sempre Freddo di cui io sono il padrone! Ah, ah, ah…».

La donna accolse quelle notizie col dolore più profondo

che possa toccare il cuore d’un essere umano. Ella

non parlava, piangeva soltanto e più piangeva più il suo

stomaco si rimpiccioliva.

«C’è una ragione per cui son venuto a sbuffare alla

tua porta. Vuoi veder liberi, forse, i tuoi figli?».

Cadeva quella sera il decennale del Giorno delle Meraviglie.

L’anziana non lo sapeva o lo aveva dimenticato.

«Posso lasciare liberi i tuoi figli, ma dovrai tu prendere

il loro posto facendoti da me, oggi stesso, lanciare

nel Sud del Mondo, dove una fanciulla capricciosa

e sempre scontenta ha bisogno di un pizzico d’amore.

Faccio questo non perché mosso da compassione, bensì

perché ordini precisi me lo impongono, nel Giorno in

cui le Meraviglie possiedono la Terra. Decidi, donna, e

sii saggia».

Non ci pensò più d’un secondo, la donna. Afferrò un

fagottino riempiendolo di poche cose e salutò la sua casa

proprio come si saluta un essere umano, carezzandone

dolcemente i muri che per tanto tempo l’avevano protetta.

«Io sono pronta. Ma tu sii fedele a te stesso e mantieni

quel che prometti».

Il Vento del Nord la caricò sulle sue imponenti spalle

e, presa una rincorsa stupefacente, a grande velocità la

gettò lontano.

Nello stesso momento, i tre fratelli furono scagliati

sullo spiazzo antistante la piccola casa. Non vennero

mai a conoscenza della storia della madre. La credettero

morta per i tanti anni passati nel dolore. I Venti feroci

non attraversarono mai più quel luogo, cambiando

direzione.

Dopo alcuni anni, i fratelli allargarono la casa, si sposarono

e misero famiglia.

Nelle dolci mattine di primavera, mentre zappavano

la terra, volenterosi e buoni, una delicata brezza li avvolgeva

sulle guance.

A loro sembrava il bacio della madre.

 

 

 

Carla Saracino, di Maruggio (Ta), è nata nel 1980.

Sue poesie sono apparse su ‘l’immaginazione’ (Manni), Tabula Rasa (Besa), Specchio e Tuttolibri de La Stampa nonchè su varie antologie.

Nel 2007 è uscita la sua opera prima I milioni di luoghi (Lietocolle, 2007), premio Saba Opera Prima. Una silloge con inediti è stata pubblicata nel 2008 all’interno della rivista Nuovi Argomenti (Mondadori). Del Febbraio 2009 è invece il libro 14 fiabe ai 4 venti (Lupo editore)

Insegna lettere a Milano.

 

 

I testi e le immagini appaiono con autorizzazione dell’autrice

Foto allegate

I milioni di luoghi, Lieto Colle
14 fiabe ai 4 venti
 
 
 
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