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Lidia Menapace. Di emergenza in emergenza
(foto LaStampa.it)
(foto LaStampa.it) 
13 Novembre 2012
 

Non sta succedendo l'alluvione del 1967, ma comunque la situazione è tale che il ministro dell'Ambiente chiede all'Europa di poter sospendere altre misure restrittive, trattandosi di una “emergenza”.

Non sono d'accordo. Il cattivo tempo è prevedibile, le previsioni del tempo ci inseguono più volte ogni giorno. Eventi di straordinaria grandezza violenza persistenza sono prevedibilmente annunciabili. Dunque bisogna attrezzare la popolazione a sapere come comportarsi, dando informazioni il più precise possibili.

Ad esempio genitori insegnanti e studenti amerebbero sapere se le loro scuole possono reggere a un terremoto di un certo grado e anche che cosa fare se ne capita uno: servono esercitazioni. Se la scuola è antisismica e addestrata, conviene che chi la frequenta resti lì e che non ci si trovi sempre nel dilemma se chiudere o no le scuole. Si potrebbe anche fare uno “sciopero dell'alluvione” e usare il tempo per fare una esercitazione. A mio parere è meglio costruire reti di mutuo soccorso, usare collettivamente gli spazi sicuri, invece di mandare l'esercito a mettere su tende e baracche, schierate militarmente e costose, ma sgradevoli, inabitabili: non si può stare in tenda o in baracca d'inverno.

Abito al sesto piano e le alluvioni non mi raggiungono, ma potrei dichiarare alla circoscrizione di poter ospitare in caso di necessità due persone che abbiano dovuto sfollare dalla loro casa allagata. Ecc. ecc. Insomma ristabilire relazioni di buon vicinato è più utile, meno costoso e più civile che strillare ogni volta all'emergenza paventare sciacallaggi e lasciare le persone in preda a al panico e senza capacità di reagire.

Durante le seconda guerra mondiale sapevamo che fare in caso di bombardamento: ciascuno aveva in casa una borsa con i soldi, i gioielli (chi voleva e ne aveva), un cambio, una bottiglia d'acqua, e magari un panino o una scatoletta di carne o un cartone di latte; se suonava la sirena si alzava dal letto (i bombardamenti avvenivano di solito la notte), agguantava la borsa, scendeva in cantina o andava al rifugio conosciuto. Poteva lo stesso capitare che la bomba centrasse proprio la casa dove stavi, ma anche no e in ogni caso nei rifugi eri al riparo da schegge, fuoco, crolli e altre vicissitudini.

Bisogna addestrarsi, non scoprire ogni volta l'emergenza, che è diventata ormai lo stato abituale delle cose. Le forme di autorganizzazione sono una attività politica intrinsecamente democratica e servono anche per modificare le solitudini paurose ed egoistiche indotte dalla crisi capitalistica. È un buon uso della crisi, come vi è un buon uso delle malattie: anche le cose negative possono essere usate per imparare a farvi fronte e a non passivizzarsi, sperando in qualche soccorso miracoloso esterno.

 

Lidia Menapace


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