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Carlo Forin, Proteo e Cerere corrotta.
Brinzino, Ritratto di Andrea Doria come Nettuno
Brinzino, Ritratto di Andrea Doria come Nettuno 
05 Agosto 2006
 
Come abbiamo visto in “Saturnia tellus”, Virgilio chiude le Georgiche firmando con una dichiarazione: -nella mia audacia giovanile io, Virgilio, mi sono rivolto a te, Titiro [Tytire id. ‘ire andare di Tyt: ‘vita TI sacro ro/RU Sole IT’ che richiama gli Ittiti], nelle Bucoliche, osando lamentarmi dell’esproprio dalla mia terra. So di aver osato da superbo, perché con i Romani non si deve protestare mai se si vuol vivere-.
Tuttavia l’Autore osa scrivere le frasi coraggiose «osando dischiudere le sacre fonti» e «nella mia audacia giovanile» adesso che inizia la pace imperiale [le Georgiche diventano pubbliche nel 29 a.C. dopo che nel 31 a.C. Ottaviano Augusto vince ad Azio e conclude l’epoca delle guerre civili], in questo lavoro che ci dà il solo spiraglio, timidissimo, ma esplicito, che ce lo fa trasparire qual era: un sacerdote etrusco («per te -terra saturnia- incedo»: l’incedere è l’avanzare sacerdotale solenne. L’incedere per la terra saturnia non è di un Romano).
Abbiamo accettato (in “Dio sovrano”) una nota importantissima di Elio Donato, latinista del IV secolo, che racconta i natali di Virgilio: figlio di un mago e di una maga, la magia Polla.
Il padre mago spiega bene il suo cognomen: Maru erano i sacerdoti-giudici etruschi. Si racconta che il padre facesse il Viator. Possiamo interpretare questa qualifica come ‘funzionario di infimo livello’ rispetto ai funzionari romani dei livelli superiori legittimati all’esercizio della magistratura.
È facile dedurre che il ruolo sacerdotale fosse ereditario nella società aristocratica etrusca: tale il padre così il figlio, che bevve la cultura sacerdotale della sua gente col latte della mamma.
Bevve, non esercitò un ruolo senza prospettive, ma scrisse.
Dunque: il Medioevo conservò la qualifica di mago di Virgilio (come scrive Domenico COMPARETTI, Virgilio nel Medio Evo, 1872 Francesco Vigo, Livorno); ma non l’inventò affatto.
Sbaglia clamorosamente chi spazza via la qualifica di mago come fantasia medievale e lo riduce a mero poeta.
 
Ci proponiamo qua di leggere Proteo come ulteriore immagine che dà di se stesso Virgilio, mago bianco, -come traspare dalla VIII ecloga dove è tentato di far innamorare Dafni facendo uso della magia, ma, alla fine se ne astiene-, e identificare ‘Cerere corrotta’ dell’Eneide come Venere, dea decaduta dai Cerei Regni.
Il genio è consapevole di fare un’opera proteiforme, che si mostra ma sfugge via.
Proteo, in Omero (Odissea IV libro), è il dio marino che aveva il dono della profezia che non esercitava. Andava col suo gregge di foche attorno all’isola di Faro antistante Alessandria d’Egitto. Lo pascolava come servo di Posidone. Solo se legato e costretto, dava i suoi vaticini. Libero, si trasformava e non rispondeva alle domande di chi voleva sapere.
Proteo ricorda quel po’ che sappiamo di Velthune, il dio etrusco delle trasformazioni (‘che cambia pelle come’); per Varrone è il massimo dio dell’Etruria. Secondo chi scrive è uno dei nomi di Saturno/Kronos [uno dei massimi ostacoli dell’archeologia linguistica sta nell’incontrare più nomi per la stessa identità ed Uni-ficarli]: basta legare le trasformazioni al tempo il corpo umano si trasforma nel tempo dalla nascita alla morte
[corpus è parola che sillaba cor (< cuore) pus (< sup). TE SUP è il massimo dio hurrita. Il corpo umano si legge ‘cuore di (Te)sup’].
Proteo è dunque un’identificazione molto mediata con Saturno del pontefice mago.
Saturno apre e chiude le Georgiche e la terra saturnia viene cantata nel loro cuore!
Stupirà il lettore il fatto che la scienza accademica stia ancora cercando il dio sovrano degli Etruschi e balbetti ‘tin…tin…tin’. Succede questo perché la teonomasiologia le è ancora sconosciuta e Virgilio è rimasto nascosto nella sua religione!
Il nome Proteo ricorda Prometeo, il Titano incatenato alle rupi per aver sfidato gli dèi. Prometeo è detto ‘sofista’ in Eschilo (Prom., 62; cf. Platone, Protagora, 312).
Me-lìbeo, vado assaggiando il ME, il potere divino di creare, è il pastore espropriato attraverso il quale Virgilio dichiara di aver cantato.
Come spiegare il nome di Proteo in identità con Virgilio?
Virgilio è un poeta geniale che non fa nomi senza senso in favole fine a se stesse.
Ragioniamo Universi verso Uni in unità con Uni, Giunone etrusca..
Unità è unitas in latino, che significa ‘accordo di parti formanti il tutto’ (diz. Calonghi); ed aggiunge ‘nella poesia deve dominare l’unitas’.
Focalizziamo il ME.
Togliendo il ME da Pro-me-teo abbiamo Proteo.
Proteo non ha il ME nel nome, ma ha la capacità della ME-tamorfosi, cioè il potere di trasformarsi in ogni essere e sfuggire chi lo cerca. Se qualcuno pensasse che il ME sia casuale nel nome Prometeo indugi ad osservare i nomi nella sua famiglia di Titani: Cli-ME-ne, la madre, Euri-ME-donte, il padre, Epi-ME-teo, ME-nezio, fratelli; solo Atlante, il terzo fratello, è privo del ME (condannato da Zeus vincitore sui Titani a sorreggere il Cielo, cioè a stare in mezzo il ME divino in Cielo e quello riflesso nel creato in Terra). Il ME non è casuale nella famiglia di Prometeo; noi non ne abbiamo avuto nozione, finora, se non in rapporto stretto con la cultura sumera; dunque deve esser rimasto incatenato nella religiosità antica: una forma di Proteo che non si è svelata, ancòra.
Anche ‘àncora’ ed ‘ancòra’ sono due parole rese diverse solo dall’accento. La concezione favolistica indeuropea le fa assolutamente diverse! Solo il circare latina, al posto del cercare italiana, avvicina alla comprensione con la circolarità del pensiero antico: àncora lega al giro precedente ed ancòra a quello successivo, mostrando la ripetizione.
Indugiamo archeologicamente sul ME: il Po-ME-rio è la località sacra appena fuori la prima cinta muraria di Roma (mura Serviane) dove venivano eretti i templi; ricorda col suo nome (Pomerium) il ME del Cielo (UP) che va (IR) riflesso ombra in Terra (UM).
UP è la scrittura hurrita del nome del Po (riflesso in Terra del Cielo).
Ops è moglie di Saturno, ‘esse/essere di UP’.
TE SHUP è il dio hurrita del tempo, del tempus.
L’archeologia linguistica ci mostra: tempus < TE ME SHUP = TE EM PUSH [ci occuperemo altrove del perché di queste letture ribaltate che richiedono la comprensione di un archetipo diverso].
Il me di ognuno di noi è stato pensato come riflesso del ME divino.
Il te rispetto al me è il contatto prossimo al me.
Come la parola promo etima da pro MU, e significa, in primo significato, ‘cavo fuori’ per ogni dizionario latino –dal MU nome che eternizza (secondo la nostra lettura)- così pro Teo significa ‘cavo fuori dal Dio’. Un dio dal quale si doveva cavar fuori con forza per avere. Significa anche l’opposto, in secondo senso, ‘esporre’, ‘raccontare’, ‘spiegare’.
Il tema centrale del IV libro delle Georgiche è il venir meno del re delle api, la nostra regina.
 
Rege incolumi mens omnibus una est;
amisso rupere fidem constructaque mella
diripuere ipsae et cratis solvere favorum.
                                             IV 212-214
tr.: Quando il re è in vita una sola è la mente per tutti.
Perduto, rompono il patto, esse stesse devastano
il miele accumulato e infrangono il graticcio di favi.
 
Si vero, quoniam casus apibus quoque nostros
vita tulit
                                                         IV 251
tr.: poiché la vita riserva anche alle api le nostre vicende,
 
Leggero, e mai ossessivo, l’Autore mostra di amare il racconto delle vicende delle api paragonate alle nostre vicende.
Più volte ritorna nell’Eneide la me-tafora del regno delle api [I 430 -descrizione del regno di Didone: «Così, all’inizio dell’estate, il lavoro // per i campi fioriti affatica le api nel sole, // quando guidano fuori i figli adulti della specie, // o stipano il liquido miele e ricolmano di dolce nettare // le celle, o ricevono il peso dalle venienti, o fatta una schiera // scacciano dalle arnie i fuchi, neghittoso sciame: // ferve l’opera, olezza il fragrante miele di timo. // -O voi fortunati, di cui già sorgono le mura!- // esclama Enea».
VI 706 -descrizione delle anime che s’immergono nel Lete dei Campi Elisi [Lete < TE EL entro in contatto con EL LIL, dio dell’Aria] davanti al padre Anchise: «Intorno aleggiavano innumerevoli popoli e genti:// come nell’estate serena quando nei prati le api // si posano sui fiori variegati e sciamano intorno // ai candidi gigli; l'intero campo brusisce di un murmure».
XII 587 –assedio della città di Latino: «come quando un pastore trova nascoste nel tufo // trasforato le api, e le riempie di acre fumo; // quelle dentro spaurite della loro sorte trascorrono // per i cerei rifugi, e con alto ronzio acuiscono le ire; // si volge un tetro odore nel chiuso, e all’interno le pietre // risuonano d’un cieco murmure; sale il fumo nella libera aria».]
Ma, sempre, sono metafore chiuse alla lettura, come fatte da Proteo.
 
Possiamo osservare, sociologicamente, una visione del mondo aristocratica e organicistica, dal momento che la società compatta delle api -dove il singolo non ha un ruolo- viene proposta come ideale di vita paradigmatico per la società umana. E ciò non è proprio di un Romano repubblicano, ma di un Etrusco. Cioè appartiene ad una civiltà che è perita per l’arroccamento difensivo dell’aristocrazia.
Aristeo, figlio della ninfa Cirene, perdute le api per loro freddo e per fame, va in cerca del perchè il re delle api sia svanito in modo da recuperarlo e dar continuità ai cerei regni; andrà da Proteo sapendo che lo deve immobilizzare incatenandolo per poter cavargli fuori la sua profezia senza che lui si eclissi.
Da Proteo è duro cavar fuori qualcosa!
Da Virgilio possiamo cavar fuori senso religioso dai nomi, rimasti enigmatici finora.
Aristaeus, ad es., si collega ad arista, la turgida spiga incontrata nel I libro (v. 8). A RIS teus collega al dio A SIR, Osiride il Sole degli Egizi (citati al v. 210). Aris –idis è Gilico, detto da Plinio è rimasto oscuro. Gil-vo è ‘giallo come miele’ ed è il colore di un cavallo (Georgiche, III 83) (flavo è giallo oro, fulvo è giallo rossiccio).
Gil < GH IL, luce di EL LIL, come mel < ME EL.
Da pontefice, sacerdote che fa ponte tra dèi ed uomini, Virgilio non cava il ME agli dèi, lo assaggia in quanto gli è dato e ne poeta in modo proteiforme, duro da capire nel senso religioso. La lingua latina, per lui etrusco, svela tutte le sue forme: sia le più semplici, lette da tutti in questi 2000 anni –le armi e gli eroi- sia le più complesse, quelle religiose, gli dèi, ombre che accompagnano gli uomini.
Nell’Eneide Giunone è l’ombra di Turno [fino a farsi sostituire dalla sorella di Turno, Giuturna –Iuturna unisce Iu(no)+Turno dichiarando: «Apprendi, Giuturna, e non incolparmi, la tua sventura. Finchè la Fortuna sembrò permetterlo (…) protessi Turno e le tue mura» –XII 146-148-] come Venere è l’ombra di Enea.
Dar corpo alle ombre si presenta come impresa difficile da protocollare in questa società laica che non riconosce in Virgilio il ruolo di mago. E i nomi non vengono studiati in questa società che ne ha quasi perduto l’interesse.
Virgilio viene insegnato al giovane a scuola fin da quand’era in vita; non appena uno aveva appreso le prime nozioni per compitare lo aveva davanti; tanta la semplicità stilistica acquisita dal genio nella sua ‘seconda’ lingua. Vela il ME agli uomini. Da Pro(me)teo -sacerdote incatenato nel suo senso religioso- suggerisce, ma non svela. Durissimo è scatenarlo per chi vi scrive senza l’auctoritas di una cattedra.
Con questa avvertenza proviamo a leggere l’Eneide come carme religioso rimasto velato nella religiosità. Arma virumque cano dichiara col verbo introduttivo un canto religioso. Cano, per Ernout e Meillet: «C’est un terme de la langue augurale et magique, dont les formules sont des mélopées rytmées». Tr.: È un termine della lingua augurale e magica le cui formulazioni sono delle melopee ritmate. Cano….fato: canto da mago che sa che il Fato ha disposto gli eventi e canto in modo proteiforme lasciando che il Fato decida il destino del canto.
Finora il Fato ha deciso per i Romani e per Virgilio poeta romano. Un Romano non poteva alzare un canto religioso; così viene letta l’epopea del figlio di una dea mentre si giudica rituale ed irrilevante l’azione divina. L’opera eroica delle gesta di Enea è stata sviscerata solo dal punto di vista dei Romani che si ritennero esaltati come stirpe divina. Ma li ha raccontati un vinto geniale. L’oggettivazione del racconto eneide è così ben riuscita all’Autore che è stata facile questa lettura pur essendo possibile quella contraria dei tifosi della parte di (Sha) Turno. Non ho nozione di nessuno che abbia letto le vicende guardandole continuamente con l’occhio della Saturnia. Il Fato ha pesato per i vincitori.
Proteo Virgilio, scatenato dalle parole attraverso la lettura dei nomi, ci invita a leggere Cerere corrotta in altro modo.
Abbiamo chiuso i Cerei regni con Cerere legislatrice, cioè con Cerere sovrana.
 
a Cerere legislatrice e a Febo e al padre Lieo,
                                     (Eneide IV, 58)
legiferae Cereri Phoeboque patrique Lyaeo.
 
Saturno viene suggerito dall’unitarietà del verso come risultante dalla unificazione di Cerere legislatrice, Febo Apollo e Bacco –visto come padre (Liber et alma Ceres nel 7° verso delle Georgiche)-.
E Giunone è nel seguito immediato:
 
Iunone ante omnis, cui vincla iugalia curae.
                                      (Eneide, IV 59)
a Giunone prima di tutti, che tutela i vincoli nuziali.
 
Ora occupiamoci di Cerere corrotta.
 
Ac primum silici scintillam excudit Achates
succepitque ignem foliis atque arida circum
nutrimenta dedit rapuitque in fomite flammam.
Tum Cererem corruptam undis Cerealiaque arma
                                               (Eneide I, 177)
tr.: Prima, battendo una selce, Acate ne sprigionò la scintilla
e nutrì il fuoco con le foglie e intorno gli diede
arido alimento e trasse la fiamma da quegli stecchi.
Improvvisamente estraggono Cerere corrotta dalle foglie e le armi cereali
 
Una dea celeste corrotta dovrebbe insospettire il lettore disinteressato ai casi di Enea ed attento al conflitto religioso che accade sulla testa dell’eroe! Corrotta rispetto ai vincoli nuziali è Venere, incapace di amare disinteressatamente il marito Efesto. Richiamiamo qua la critica ‘allegra’ fatta ai piccoli Quiriti, che snervano i corpi impigrendoli al servizio di Venere (vista in Cerei regni): il sacerdote etrusco, aristocratico votato alla famiglia capace di mantenere l’unità patrimoniale sfotteva la ‘madre crudele come il figlio Cupìdo [VIII ecloga]’ che apre alle relazioni extraconiugali.
Una bufera marina scatenata da Giunone saturnia occupa i primi 141 versi dell’Eneide. Giunone saturnia è Cerere sovrana, che tutela i vincoli nuziali.
Virgilio racconta che il popolo di Enea, stremato dalla resistenza alla tempesta marina, raccoglie dalle onde il grano corrotto dall’acqua. Questo è il significato semplice, diretto e capito da tutti.
E Cerere corrotta?
Questa citazione di Cerere su cui richiamiamo l’attenzione non viene neppure rubricata nell’indice finale dei nomi [dell’edizione Oscar Mondadori dell’Eneide, che annota sette altri rinvii per Cerere: I 702; II 714, 743; IV 58; VI 484; VII 113; VIII 181].
Tanto l’Autore è stato bravo a farla scivolare di soppiatto –da Proteo, maestro delle forme linguistiche, e tanto i compilatori moderni sono convinti che l’Autore parli solo del grano disastrato dalla bufera e non di Cerere.
Eppure è esplicita, doppia, per distinguere i cereali (Cerealia arma) da Cerere corrotta. E le armi cereali, non sono un po’ strane? Cerealia erano le feste in onore a Cerere che si celebravano il 19 di aprile. Erano feriae sementivae, feste della semina che ci riportano a Sator, a Saturno. Le Cerealia arma tendono a restituire a Cerere la sovranità saturnale perduta. Velano Uni.
Si noti che il genio ha introdotto i due nomi di Cerere dopo aver descritto la baia in cui riparano i naviganti tempestati. Vengono dopo il verso che contiene la parola umbra [desuper horrentique atrum nemus imminet umbra – v.165]; la stessa con cui l’opera intera si conclude [vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras – XII 952 tr.: e la vita (di Turno) con un gemito fugge sdegnosa tra le ombre].
Luca Canali traduce il verso: [sopra, uno sfondo di selve scintillanti] e in basso un oscuro bosco incombe con orrida ombra. Può essere solo una forma descrittiva del luogo e l’ombra sovrastante non alludere all’Aldilà? Ed a cosa, in particolare?
 

Tum Cererem corruptam undis Cerealiaque arma

                                                (Eneide I, 177)
 
È il primo verso che rapporta Cerere a Giunone-Uni: Cerere corrotta ad Alma Ceres. Le due contendenti esplicite dell’Eneide: Venere e Giunone.
Cerealiaque arma di fine verso I 177 lega con ‘arma’ in inizio ad Arma virumque cano del primo verso dell’Eneide (arma < MA AR madre sole).
Circando, facendo il circolo, abbiamo la corrispondenza esatta tra la fine dell’azione di Giunone ed il suo inizio (a SAG US, inizio-fine, Saturno).
Armi di una terra che il verso 15 specifica conservate nel culto a Cartagine ed a Samo (< SHA MU utero del nome che rende immortali):
 
quam Juno fertur terris magis omnibus unam
posthabita coluisse Samo: hic illius arma.
                                                   (Eneide I, 15-16)
tr.: che, sola [Cartagine], si dice Giunone prediligesse fra tutte
le terre, trascurata Samo; qui le sue armi.
 
Colleghiamo Cererem corruptam ad un secondo circolo che apre all’azione di Venere. Cererem corruptam/Venere e cerealia arma/ alma Ceres sono antipodi.
 
«Canto religiosamente l’ira di Giunone» un’ira che passa dall’altro mondo a questo mondo scatenando la bufera marina.
L’Eneide è un canto religioso che racconta di un conflitto divino che si manifesta in guerra tra gli uomini di Enea e quelli di Turno per il controllo della terra saturnia.
Cerere corrotta appare alla fine della bufera di Giunone saturnia. Prima della tempesta marina scatenata contro le navi di Enea e contro il destino favorevole a Venere la Saturnia è legislatrice, ma ormai fuori dalla storia. La sorella e sposa di Giove (v. 47) entra nel nostro mondo, saetta dalle nubi una rapida folgore di Giove (v. 42), ottiene il consenso di Eolo –dio dei venti-, che le riconosce «tu mi concili quanto possiedo di regno, e lo scettro di Giove, e mi concedi di sedere ai banchetti degli dèi» (v. 78-79).
Ma è il Fato il protagonista nel tempo degli uomini ed è sovrano lui dentro al nostro tempo cioè la Saturnia non ha l’ultima parola. Lotta contro il Fato, che pesa gli eventi ponendosi nel piatto della divinità avversa, che i Romani ed i loro tifosi considerano propria: Venere.
Così l’ira della parte femminile di Saturno scatenata contro i progetti di Venere, che compare supplice a Giove dopo la tempesta (v. 233), è destinata a soccombere. Il suo eroe Turno, che allude in modo quasi esplicito a Sha-Turno, ‘utero/origine di Turno’ perderà fatalmente ed il marito-fratello, Giove saturnio, uscirà vincente dalla burrasca della famiglia saturnia.
La corruzione di Cerere (v. 177: 1+7+7 = 15 come 15° è il verso della determinazione delle terre e delle armi della Saturnia come 15 è il numero di ISH TAR dea della morte e della vita) consiste nelle conseguenze della divorazione della terra saturnia degli Etruschi fatta dal popolo di Enea migrante da Troia.
 
Osserviamo la profezia ricevuta alle isole Strofadi. Celeno, la massima delle Furie, maledice Enea:
 
quam vos dira fames nostraeque iniuria caedis
ambesas subigat malis absumere mensas.
                                             (III 256-257
tr.: prima che una terribile fame e l’offesa fatta coll’aggredirci
vi costringa a consumare con le mascelle le rose mense.
 
Apollo conferma nell’Epiro al sacerdote Eleno consultato da Enea per la divinazione del suo viaggio futuro. –Ti dirò il segnale (che avrai toccato la terra assegnatati dal fato)-:
 
Nec tu mensarum morsus horrescere futuros:
fata viam invenient aderitque vocatus Apollo.
                                                  (III 394-395)
tr.: Tu non temere i futuri morsi alle mense:
i fati troveranno la via, e assisterà Apollo invocato.
 
Come verrà notato il riscontro del vaticinio?
 
Aeneas primisque duces et pulcher Iulus
corpora sub ramis deponunt arboris altae
instituuntque drapes et adorea liba per herbam
subiciunt epulis (sic Iuppiter ipse monebat)
et Cereale solum pomis agrestibus augent.
Consumptis hic forte aliis ut vertere morsus
exiguam in Cererem penuria adegit edendi
et violare manu malisque audacibus orbem
fatalis crusti patulis nec parcere quadris:
-Heus! etiam mensas consumimus- inquit Iulus,
nec plura adludens.
                                       (Eneide VII, 107-117)
tr.: Enea e i primi capi e il leggiadro Iulo
distendono i corpi sotto i rami di un albero;
imbandiscono le vivande, e tra l’erba sottopongono ai cibi
focacce di frumento (così Giove ispirava)
e ricolmano il piatto cereale di frutti selvatici.
Allora divorato il resto, quando la penuria di cibo
spinse a volgere i morsi nella pasta sottile di Cerere
e a violare con la mano e con audaci mascelle il cerchio
della fatale focaccia, e a non risparmiare i larghi riquadri,
-Oh, divoriamo anche le mense- esclamò Iulo,
scherzando senza alludere ad altro.
 
Satura è il nome del piatto, pieno di ogni sorta di frutti che ogni anno si offriva agli dèi. Sillabiamo SATUR A, lievemente diverso da SATUR NA, che in NA ha ‘generazione di’.
Satura è il termine più antico di satira, componimento misto di prosa e versi.
Satira è ciò che il poeta sacerdote etrusco fa in faccia ai Romani: morti di fame, venite ad addentare anche la terra di Cerere, protetti purtroppo dal fato!
 
Il Fato è il sovrano che consente al sacerdote etrusco i volteggi più arditi senza svelarsi.
 
Carlo Forin

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