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Marisa Cecchetti. “Perché ti ho perduto” di Enza Alfano
10 Marzo 2021
 

Enza Alfano

Perché ti ho perduto

Giulio Perrone Editore, 2021, pp. 112, € 15

 

Attingendo ad opere di prosa e poesia precedenti e ispirandosi con una libera rielaborazione alla vita di Alda Merini, in Perché ti ho perduto Enza Alfano ci guida in modo coinvolgente nella storia della poetessa.

Il titolo sintetizza e rimanda ad un dolore profondo che molto ha inciso sulla fragilità psicologica della Merini, la separazione da Giorgio Manganelli quando lei aveva solo sedici anni.

La situazione di disagio psicologico era già presente prima, in una adolescenza devastata dalla guerra e dalle bombe alleate che cadono su Milano nel ‘43: “Alda è seduta sul pavimento della sua casa in via Mangone, a Porta Genova. È una ragazzina di dodici anni con la testa sempre tra le nuvole e gli occhi scuri aguzzi come chiodi, due spilli che appuntano le cose. Ogni tanto si perde, si vede dallo sguardo che si smarrisce su un confine incerto dove la realtà sbiadisce”.

Alda affida alla pagina bianca le emozioni e i pensieri, e la poesia scaturisce come da una pura sorgente: “Alda tiene sulle ginocchia un quaderno con la copertina nera e un’etichetta bianca con il suo nome scritto in una grafia piena e rotonda. […] Con la testa bassa sui fogli scrive versi e parole. Disegna scarabocchi che rivelano l’ombra che le abita dentro”.

Tuttavia la poesia non la può liberare dal terrore dei bombardamenti che non lasciano nemmeno il tempo di capire: “La madre l’afferra per un braccio, il quaderno vola via in chissà quale angolo della casa, che ha iniziato a barcollare. Potrebbe sembrare un’allucinazione. Invece è tutto vero: le pareti vibrano, l’edificio trema, e con lui vacillano le certezze. Si sta sospesi tra vita e morte”.

Poi la fuga da Milano -il padre e la sorella rimangono in città- la salvezza in mezzo alle risaie del vercellese, la difficile vita in un cascinale presso degli zii, in cerca di cibo ogni giorno. E Alda bambina che si improvvisa ostetrica per far nascere un fratellino. Intanto “la sua immaginazione troppo fervida alimenta le ombre che si fanno a poco a poco sempre più robuste nel suo mondo interiore”.

Finisce la guerra e ritornano in città ma della loro casa a Milano è rimasto un cumulo di macerie: “Alda alza la testa e tira un pizzo della gonna di sua madre. – Dov’è la nostra casa?”

Nel lento e difficile ritorno alla vita l’incontro con Giorgio Manganelli, nel salotto letterario di Giacinto Spagnoletti, dà inizio ad una travolgente passione. È lì che ogni domenica i poeti si danno appuntamento e manifestano la loro creatività. Anche lei è ammessa, sia pure voce sconosciuta ma trepidante di emozioni: “La poesia è la luce che la distrae dalla sua casa, dalla sua vita troppo modesta. La poesia è la malta del loro amore. La poesia è la sua mongolfiera”.

Lei è giovanissima, con gli occhi neri che bucano come due spilli, è inesperta di poesia eppure il suo canto già prende il volo e affascina Giorgio: “Le dice sempre che è troppo giovane per covare dentro questo desiderio di morte e questa grande passione. Non si spiega da dove nasca la sua voce potente, in fondo lei è una mezza ignorante, una musa scalza che cammina fra la gente. Nessuno sa capire da dove nasca il suo canto”.

Quelle domeniche sono attese con trepidazione perché tra Alda e Giorgio – lui adulto, sposato e padre di una bambina – l’intesa è travolgente, anche se Alda “è troppo piccola per lui, ha solo sedici anni. Ma lui le riconosce una sapienza che la fa più grande, la avvicina a lui”.

La ragazza è consapevole degli ostacoli che li dividono, che questo amore non potrà essere per sempre, e riconosce che Giorgio “la lascia sempre sospesa nel dubbio che tutto possa finire da un momento all’altro, che sia l’ultima volta. Come se volesse ribadire che a loro due non è concesso di amarsi per sempre”. Eppure è lì che trova la forza e la sua completezza.

Troppo forte e inatteso lo strappo che Giorgio dà alla loro storia, è una ferita che allarga le ombre che la abitano. Abbandonata “sul bordo di una voragine”, il matrimonio con Ettore Carniti, panettiere, la sua buona volontà nel fare la moglie e la madre, non cancellano quelle ombre, e la poesia rimane il suo rifugio.

È un rifugio sconosciuto e incompreso dal marito, un uomo amorevole e con un grande senso pratico ma che non appartiene al suo mondo fervido di immaginazione. Del resto ora anche la poesia diventa inutile, “lei non può servirsene in questa vita nuova con Ettore, che finge di ascoltare i suoi versi mentre va e viene dalla cucina”.

Invece “È un sospiro quel nome che ancora le fa male. Lo sente dentro come un coltello. […] È stato Giorgio a condurla lì. Ha sposato Ettore per lasciarlo libero, perché non c’era altro modo per provare a stare insieme: doveva legarsi a un altro, dimostrargli di essere capace di farsi una famiglia. Senza di lui”.

E poi un giorno la caduta dentro la voragine della follia, il ricovero al Pini, il primo dei suoi viaggi all’inferno, “anche se Alda ha le idee molto confuse e ha ribattezzato il manicomio la sua Terra Santa. Non ha voglia di venir via né di guarire. In fondo non sa nemmeno se sentirsi una malata, benché lì dentro tutti abbiano dimenticato il proprio nome, abituati a sentirsi chiamare pazienti. A volte per distinguerli assegnano loro un numero quello del letto in cui giacciono. Così Alda è la paziente del 101”.

Lo scorrere di giorni vuoti e uguali in manicomio, il degrado umano dei malati, le terapie umilianti, gli psicofarmaci che annientano volontà e cervello, gli abusi, la crudeltà, sono una parte ampia del romanzo, dolorosa, struggente. Intanto lei ritorna al passato, con Giorgio sempre nella mente, ma con il conforto di una voce femminile ritrovata in quelle stanze e il tentativo salvifico di scrivere ancora versi.

Affiora, non placato, il dolore delle figlie che ha dovuto affidare ad altri.

Quattro figlie, avute anche negli intervalli tra un ricovero e un altro, perché Ettore e Alda hanno continuato a fare l’amore “per sentirsi uguali agli altri o forse solo perché lui non ha mai smesso di desiderarla. È successo ogni volta che tornava a casa, ancora stordita da elettroshock e cura del sonno, ancora fuori di sé. Pareva che lui l’aspettasse solo per averla”.

Ma quelle figlie “le deve dare via, perché piangono e non sa consolarle. Le deve dare via, perché hanno freddo e non sa scaldarle. Le deve dare via, perché hanno paura e non sa rassicurarle. Le deve dare via, perché hanno fame mentre lei ha dimenticato perfino di fare la spesa, il frigorifero è vuoto come il suo sguardo adesso che se ne sta seduta sul pavimento e piange, piange con le mani sul viso, due conchiglie di pelle ruvida. Le deve dare via perché sta male”.

Nell’inferno del manicomio la coscienza di sé non si annulla, lei risorge davvero come ad una nuova Terra Santa, analizza il passato per accettarlo, per non odiare chi l’ha abbandonata, per accettarsi nella sua follia: “Ti perdono per avermi abbandonata. Ti perdono per avermi lasciata sola e disperata. La chiamano follia. Si dice malata una donna che sceglie consapevolmente di arrendersi all’amore. Come ho fatto io. Folle, folle, folle solo di amore per te”.

Nonostante le ricadute percorre tenace la sua strada: “Io ancora sento affetto per questa terra. Anche qui, nel manicomio, ho conosciuto la dolcezza dell’amore, il calore delle lacrime e la voglia di scrivere ancora poesia. Non voglio rinunciare a vivere. Mi godo l’inferno che è il manicomio, perché la vita è spesso un inferno e io amo tanto la vita da abbracciare anche quello”.

C’è di nuovo posto per l’amore, a Taranto, dove compone versi per un anziano poeta che “l’ha salvata dal regno di Dite”. Un amore senza ricatti, senza sofferenze, senza violenza. Ma neppure quella parentesi potrà cancellare le sue ombre.

 

Marisa Cecchetti


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