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Alberto Figliolia. Cinquant'anni fa, il basket italiano...
13 Aprile 2009
 

1959: Fidel Castro entra all'Avana. L'Alaska diviene il 49° stato USA e le Hawaii il 50°. Cipro acquista l'indipendenza. In Tibet soffiano venti di rivolta e il Dalai Lama dovrà fuggire in India, esiliato dalla sua terra (e le sofferenze della sua gente proseguono a distanza di cinquant'anni). L'uomo vedrà per la prima volta la faccia nascosta della luna e Salvatore Quasimodo vincerà il Premio Nobel.

E che cosa succedeva nell'Italia cestistica di cinquant'anni or sono? Il 29 marzo 1959, a Napoli, si disputava la 189esima partita degli azzurri, avversario la Spagna. Sarebbe finita 59-57 (24-25) per i nostri colori, con il seguente tabellino: Andreo 1, Bonetto 7, Volpini 7, Rocchi 14, Pomilio 5, Coccioni, Fontana, Giomo 12, Motto 3, Paolini, Zollia, Velluti 9.

Era un'era in cui la televisione ancora non aveva assunto aspetti di preponderante invadenza e invasività, ma costituiva un fenomeno originale e unificante, di massa e popolare. Un'epoca ancora in bianco e nero nelle immagini, ma socialmente, economicamente e culturalmente a colori e vitalissima. Il basket era in età da incipiente boom. Tornando nello specifico a quel 29 marzo: per il livornese Mario Andreo (nell'Ignis scudettata 1960-61), lungo atipico e grande agonista, molto forte fisicamente, il classico timbro dei livornesi nella sua costruzione cestistica, fu l'unica presenza, con l'unico punto marcato in nazionale. Prima e ultima presenza anche per i romani Giancarlo Coccioni e Maurizio Fontana – un gran bel giocatore, molto elegante – della Stella Azzurra e della scuola di Ferrero, per il pesarese Giovanni Paolini, “figlio” di Agide Fava, con caratteristiche da marine, grande difensore individuale, contropiedista, penetratore, abile con tutt'e due le mani, per il goriziano Benito Zollia (foto), oggi presidente della Brovedani Spa, azienda meccanica di assoluto livello internazionale e leader nella componentistica di precisione per auto, motoveicoli ed elettrodomestici, di recente laureato ad honorem in ingegneria meccanica dall'Università di Udine (dal 1985 al 1992 è stato anche presidente dell'Unione ginnastica goriziana), e unica presenza anche per Justo Bonetto di Vigodarzere, che però fu più prolifico in termini di punti realizzati, grande tiratore di scuola padovana e virtussino bononiense da 970 punti in campionato.

Per il trevigiano Augusto Giomo fu sì l'esordio in azzurro, ma non l'estrema apparizione avendone poi accumulate altre 49 (però quei 12 punti furono con la pari cifra di un match del 16 ottobre 1964, Italia-Ungheria 77-73 alle Olimpiadi di Tokyo, il suo top in azzurro). Giomo, un altro virtussino: 647 punti con le V nere in serie A. 185 cm. Cervello. Uomo dedito alla squadra. Splendido playmaking. Qualche difficoltà, si dice, a convivere con Dado Lombardi, attaccante formidabile ma qualche volta – sic dicunt – anche un po' egoista.

E ancora... Marcello Motto di Casale Monferrato, lungo che evoluì a Cantù, buonissimo giocatore, forse dalle mani piccole per un centro e troppo “buono”; Vittorio Pomilio, di Francavilla, poi ingegnere di grande successo professionale, non molto tecnico ma forte fisicamente e agonisticamente; Rolando Rocchi e Piero Volpini, altri due romani, entrambi eccellenti tiratori; il cagliaritano e grande saltatore Claudio Velluti, in seguito medico ortopedico di eccelso valore, esordiente anch'egli contro la Spagna, tricolore due volte con i milanesi del Simmenthal. Velluti fu un fenomeno pure nella disciplina del salto in alto scavalcando l'asticella e valicando il muro dei 2 metri (il secondo italiano di sempre a riuscire nell'impresa) e venendo convocato anche nella nazionale di atletica leggera. Un atleta sublime.

Questi, in breve, nomi, volti e storie di quell'équipe tendente allo sperimentale il cui cinquantenario è appena caduto.

Un'incursione nel campionato... in quell'annata Bologna, già Basket City, vantava ben tre squadre in A: Virtus Oransoda, Motomorini e Santipasta Gira, rispettivamente seconda, quarta e sesta alla fine del torneo. Un derby continuo per la gioia e il dolore, il delirio felice, degli abitanti della Dotta e Grassa. Anche se lo scudetto, il dodicesimo in assoluto e il terzo di quattro consecutivi, fu vinto dalla solita cannibale Milano (in Coppa dei Campioni “le scarpette rosse”, pilotate da Cesare Rubini, detto Il Principe o Il Padrino a seconda dell'amore o odio che per lui si nutriva, sarebbero giunte sino agli ottavi di finale) che schierava Bertini, Cescutti, Galletti, Gamba, Pagani, Pieri, Riminucci, Sardagna, Tillotson e Volpato. The captain della squadra di Fiero il guerriero era Enrico Pagani detto Ricky, o Il cinese in quanto nato nell'esotica Shanghai che ancora non vantava skylines similamericane, figlio di un ufficiale di Marina e di una russa, scudetti a go go con il team presieduto dal leggendario Adolfo Bogoncelli, 38 volte con la canottiera color del cielo, bello come un attore – difatti fece anche un film con Lea Massari –, poliglotta. Che storia la sua...


Alberto Figliolia


 
 
 
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