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Gianfranco Cercone. “C'era una volta... a Hollywood” di Quentin Tarantino
28 Settembre 2019
 

Si sa che il racconto di atti di violenza, comporta sempre la possibilità, da certi punti di vista: il rischio, che lo spettatore o il lettore del racconto, ma anche il suo autore, simpatizzino con la violenza raccontata, parteggino intimamente per essa. Anche perché la civiltà tende a reprimere la violenza, sia pure con alterne fortune. E la violenza, dunque, può ricadere tra gli istinti inappagati.

È noto che la violenza, anche la più estrema, la più truculenta, è un po' un marchio di fabbrica del cinema di Quentin Tarantino. E anche il suo ultimo film: C'era una volta... a Hollywood non la risparmia (o non la fa mancare) allo spettatore, ai tanti appassionati dei suoi film. E infatti offre alla visione corpi carbonizzati, bocche maciullate, teste mezze fracassate a forza di essere sbattute contro tavole o pareti.

Si potrà osservare che, proprio perché iperbolica, eccessiva, si tratta di una violenza fantastica, paradossale, che non ha niente in comune con la violenza reale.

Ora, se è vero che, almeno alla memoria dei cinefili, queste efferatezze, questi dettagli macabri, richiamano scene viste per esempio nei film di Dario Argento, o in altri film italiani di serie B nati sulla scorta del cinema di Argento, se consideriamo come tali scene sono inserite nel film di Tarantino, viene da constatare che il meccanismo che le innesca, il movente di chi agisce in modo tanto brutale, è del tutto verosimile: elementare, perfino primitivo, ma realistico.

È facile, infatti, provare la tentazione di spaccare la faccia a un demente che per dispetto ha bucato la gomma della nostra automobile e per giunta, mentre constatiamo il danno, ci osserva con un'aria di sfottò. Ed è ancora più verosimile provare l'impulso di uccidere chi penetra armato nella nostra abitazione con il dichiarato intento di ucciderci a sua volta.

Sono appunto due delle situazioni raccontate dal film, nelle quali la reazione violenta è provocata dall'istinto di proprietà e di sopravvivenza.

Va detto che non tutto il film di Tarantino è composto di gesta sanguinarie, che occupano in effetti una modesta frazione del racconto.

C'era una volta... a Hollywood vuole essere un affresco della Hollywood di fine anni Sessanta, eseguito attingendo a piene mani all'immaginario dell'epoca, e dunque al cinema, alla televisione, alla pubblicità. Hollywood così non vuole essere rappresentata come davvero era, ma come amava rappresentare se stessa: ricca, spensierata, libertina, tutta dedita, tra feste e libero amore, al “piacere di vivere”.

Ma tanta leggerezza è contrappuntata come da una crescente corrente musicale contraria, cupa e torbida. Gli dà corpo il tormento di un attore, un divo del western, che si ritiene alla fine della carriera; poi le fantasie sanguinarie, alimentate dalla frustrazione, degli hippy seguaci di Charles Manson; la violenza ossessivamente presente nei film dell'epoca; e poi la violenza reale, storica, delle stragi.

La principale qualità di Tarantino, qui come altrove, è quella di essere un raffinato manierista: che ci dà costantemente l'impressione di imitare, piuttosto che la realtà, i prodotti dell'immaginario, particolarmente altri film: con cura dei particolari, con acuta sensibilità di cinefilo, a volte con ironia, quasi sempre con la capacità di divertimento di un grande intrattenitore.

Eppure, al fondo del suo film, affiora un elemento reale, semplice e barbarico, restituito immediatamente nella sua natura istintiva, senza volerci riflettere sopra: ed è appunto l'impulso incoercibile della violenza.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 28 settembre 2019
»»
QUI la scheda audio
)


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