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8 marzo: Cinque ritratti di donne milanesi 
di Mauro Raimondi
08 Marzo 2012
 

L’anno scorso, in occasione dell’8 marzo, abbiamo reso onore alle “streghe” di Milano. A quelle donne, cioè, che hanno pagato con la vita il loro essere “diverse”. Questa volta, invece, abbiamo deciso di raccontare brevemente la vita di cinque donne, una per secolo, che hanno lasciato un’impronta nella Storia della città.

Il nostro viaggio inizia con la “Signora di Milano”, Bianca Maria Visconti, nata nel 1425 da Filippo Maria, l’ultimo della stirpe, e da una cortigiana, Agnese del Majno. Cresciuta ad Abbiategrasso, a 7 anni venne promessa in sposa al condottiero Francesco Sforza, con cui si legò nel 1441 in una Cremona assediata perché tra suo padre e suo marito non correvano buoni rapporti. Tanto che, poco dopo le nozze, Filippo Maria mandò le sue truppe verso Ancona, dove Francesco aveva i possedimenti, e lei fu costretta a governare la situazione in assenza del marito impegnato a combattere. Se la cavò benissimo, e la stessa forza di carattere dimostrò nei confronti dei tradimenti dello Sforza: la prima volta, la rivale fu trovata cadavere. In seguito, non esitò a scrivere persino al Papa, mettendo in difficoltà diplomatica il marito. Nel 1450, dopo la morte di Filippo Maria e la fine della Repubblica Ambrosiana, Bianca Maria entrò a Milano insieme a Francesco Sforza e si occupò con talento dell’amministrazione della città e di pubbliche relazioni. Investì inoltre nella corte, facendola diventare una delle più fastose del tempo, ma pure in opere pubbliche, creando quella Ca’ Granda che costituiva un ospedale assolutamente all’avanguardia in tutta Europa. L’unica spina fu il primogenito Galeazzo, che dopo la morte del padre allontanò progressivamente la madre dalla gestione del potere, al punto che sul decesso di Bianca Maria, avvenuto a Melegnano nell’estate 1468, gravarono i sospetti di un avvelenamento da parte del figlio. La salma di Bianca Maria venne esposta nella chiesa di S. Gottardo, dove sfilarono numerosissimi i milanesi.

Altra celebre figura della Milano tra fine ‘400 e ‘500 fu Cecilia Gallerani, che possiamo immaginare mentre passeggia nei pressi di S. Simpliciano, dove crebbe. Il padre, Fazio, fu nominato da Bianca Maria referente per la successione dello Sforza meritandosi onori e compensi, ma un tenore di vita oltre le proprie disponibilità portò la famiglia in gravi difficoltà economiche. Cecilia, bella e intelligente, venne inizialmente promessa a Stefano Visconti, ma il fratello Sigerio ebbe l’intuizione di inviarla a chiedere la restituzione dei beni confiscati direttamente a Ludovico il Moro, che se ne innamorò a prima vista. In poco tempo, la sedicenne Cecilia si trasferì al Castello come amante ufficiale dello Sforza, diventando soggetto di versi poetici da parte del Bellincioni e di un ritratto di Leonardo, che prima di dipingere la “dama con l’ermellino” (ora a Cracovia) le parlò a lungo. Sicuramente presente alla celebre “Festa del Paradiso” organizzata dal genio toscano nel settembre 1489, Cecilia venne allontanata dalla corte da Beatrice d’Este, moglie del Moro dal gennaio 1490: leggenda narra che un’identica tunica regalata ad entrambe fu il motivo dell’imposizione di Beatrice. Perciò, dopo aver partorito Cesare, figlio di Ludovico (cresciuto a corte e immortalato nella pala Sforzesca che si trova alla Pinacoteca di Brera), Cecilia si trasferì al palazzo Dal Verme, forse ristrutturato da Bramante o da Leonardo, e nel 1492 si sposò con il conte Bergamini, diventando l’animatrice di un raffinato salotto (lei stessa componeva poesie, tanto che lo scrittore Bandello la paragonò a Saffo). Al primo arrivo dei francesi fuggì da Isabella d’Este, salvo poi ritornare nel suo feudo a Carugate: il rientro a Milano dei nemici d’oltralpe nel 1515 la costrinse a ritirarsi nel castello di S. Giovanni in Croce, dove morì nel 1536.

Passando al ‘700, tra le tante donne che meriterebbero di essere ricordate scegliamo Maria Gaetana Agnesi. La quale, essendo femmina, non avrebbe potuto studiare (il filosofo Lessing, in pieno Illuminismo, affermava che “una donna che pensa è altrettanto ripugnante quanto un uomo che s’imbelletta”). Tuttavia, notata dal precettore del fratello, la bambina fu ammessa alle lezioni e poté sviluppare le sue incredibili capacità. La sua prima impresa fu imparare 7 lingue (tra cui l’ebraico), e portò il Gemelli a scrivere l’Orazione nella quale si dimostra che lo studio delle arti liberali non è affatto disdicevole al sesso femminile. Quindi si dedicò con analogo successo a filosofia, cosmologia, botanica, e la sua fama si espanse a tal punto che il viaggiatore francese Charles De Brosses, che aveva chiesto un incontro per provare la falsità della reputazione della ragazza, ne restò così affascinato da invitarla a Parigi. Lei rifiutò e, stanca della notorietà, pretese dal padre di ritirarsi a vita appartata. Ma il suo nuovo successo, il libro di matematica Istituzioni analitiche ad uso della Gioventù italiana, la riportò al centro dell’attenzione: Goldoni le dedicò un sonetto, Maria Teresa d’Austria le regalò un anello con brillanti e Papa Benedetto XIV perle e oro. Il prestigioso ateneo di Bologna le offrì una cattedra ma lei declinò l’invito e dopo la morte del padre nel 1752, si dedicò esclusivamente alle persone inferme aprendo un ospedale in Porta Vigentina. In seguitò diventò direttrice del Pio Albergo Trivulzio, dove si trasferì (pagando la retta per l’affitto della stanza). Morì il 9/1/1799, e nella Milano francese le sue ossa vennero buttate in una fossa comune fuori Porta Romana.

Per quanto riguarda l’Ottocento desideriamo citare Ersilia Bronzini, una delle tante donne che si sono generosamente dedicate al miglioramento della condizione femminile. Sposatasi con l’avvocato socialista Majno nel 1881, Ersilia fu tra le promotrici della prima guardia ostetrica gratuita e nel 1889 tra le fondatrici (insieme alla poetessa Ada Negri) dell’Unione Femminile Nazionale, che si poneva come obiettivo l’assistenza al parto, il sostegno economico e legale alle lavoratrici e alle loro famiglie, la lotta contro la “tratta delle bianche” (la prostituzione). Nel giugno 1901, mentre si trovava a Roma per un convegno, morì la sua figlia più piccola, Mariuccia, e ciò le provocò le aspre critiche della borghesia milanese, che la accusò si essere una madre snaturata. Straziata, lasciò Milano proprio mentre veniva inaugurato l’Asilo dedicato alla sua bambina, fortemente voluto da lei e dalle altre militanti dell’Unione Femminile per recuperare le giovani sbandate. Ritornata in città, diresse con grandi capacità e passione l’Asilo Mariuccia, tra le prime istituzioni del genere completamente laiche, fino alla morte avvenuta nel 1933.

Milanese di nascita e di residenza”: così si definiva Camilla Cederna, che chiude questo nostro breve excursus. Laureatasi in Lettere con una tesi sulle “Prediche contro il lusso delle donne dai filosofi greci ai padri della Chiesa”, esordì nel 1939 su L’Ambrosiano, rischiando poi il carcere a causa di un articolo sul Corriere della Sera intitolato “Moda Nera”, dove ironizzava sulle donne del regime. Nel dopoguerra fu tra i fondatori de L’Europeo nonché l’unica donna in redazione, dedicandosi prevalentemente alla moda e al costume e segnalandosi per lo stile brillante, ricco di humor, privo di snobismo o giudizi morali. Ma si segnalò anche per le interviste a personaggi dell’epoca (Hemingway, Magnani, Callas, Toscanini, Fellini…), di cui mostrava gli aspetti più intimi e sinceri, oppure per le sue cronache legate all’attualità come il Giro d’Italia o la diga del Vajont, per la quale preannunciò, insultata da una certa stampa, il disastro.

La carriera della Cederna conobbe una svolta con la bomba di piazza Fontana, dove arrivò insieme ai primi soccorsi. Da quella tragedia iniziò la sua seconda vita giornalistica caratterizzata da una forte carica civile che le provocò le critiche di un superficiale Montanelli e di molta stampa conservatrice. Si occupò della morte di Pinelli e delle responsabilità di Calabresi (il cui assassinio le causò l’assurda accusa di mandante), del farsesco processo di Catanzaro, della tragedia di Seveso e del presidente Leone, che anche per il libro della Cederna sullo scandalo Lockheed fu costretto alle dimissioni (ma lei fu condannata per calunnia). Oltre a ciò, comunque, continuò pure a scrivere splendidi ritratti e a ironizzare sui costumi e i vizi degli italiani.

Camilla Cederna è morta nel 1997 e Milano non le ha ancora dedicato una via. Ci auguriamo che questa vergognosa dimenticanza venga presto colmata. Saludi


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