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“Martin Eden” di Pietro Marcello
09 Settembre 2019
 

Di fronte a film tratti da romanzi, e in particolare da classici della letteratura, si può provare la tentazione di confrontare il film con il romanzo che lo ha ispirato. È un'operazione legittima, purché però si tenga presente che il giudizio sul film non può dipendere da tale confronto. Film e romanzo sono infatti – val la pena ricordarlo – due opere distinte. E può benissimo darsi che un film sia in sé coerente, pienamente sviluppato, e riuscito, anche se non ha rispettato la lettera, e lo spirito, del romanzo di partenza: che può essere stato anche soltanto uno spunto, un pretesto.

Questa premessa di “metodo”, per dire che per un film come Martin Eden, che il regista Pietro Marcello ha liberamente tratto dal celebre romanzo omonimo di Jack London, dovremmo chiederci, per esempio, se il protagonista del film sia un personaggio in sé vero e “vivo”, riconoscendo allora, da un punto di vista artistico: bello, anche nel caso in cui fosse soltanto un lontano parente del Martin Eden immaginato da London.

Il regista Pietro Marcello si è preso, legittimamente, delle ampie libertà rispetto al romanzo.

Anzitutto il suo personaggio, anche se si chiama Martin Eden, è napoletano anziché americano, e la sua vicenda, piuttosto che in California, si svolge nell'Italia dei primi del Novecento (ma la collocazione storica è deliberatamente imprecisa, sfuocata; e, trattandosi di un racconto realistico, non si capisce perché).

Forse mantiene vari tratti psicologici del personaggio originario, ma ciò che conta è che si tratta di un personaggio delineato bene, in modo incisivo, il cui profilo psicologico, sfaccettato, si riflette con coerenza nelle sue azioni e nelle idee che professa.

Se è un ragazzo del popolo – inizialmente un marinaio – irruento, spavaldo, ma anche generoso, si ingentilisce, si fa umile e timoroso, al cospetto di una ragazza che appartiene all'alta borghesia e possiede, tra i suoi privilegi, quella cultura letteraria a cui il ragazzo aspira con tutto se stesso.

Dopo l'incontro con lei, il desiderio di conquistarla, di procurarsi un'istruzione leggendo tutto da solo, senza poter frequentare scuole, febbrilmente; e il tentativo di coronare la propria aspirazione a essere uno scrittore, sono un tutt'uno: mete perseguite con l'ardore di una volontà integra, non impedita da timori o ripensamenti.

E le idee che lo incantano, che professa a gran voce a tavola o in comizi pubblici, con l'imperterrita convinzione di un ingenuo, di un autodidatta un po' esaltato, sono quelle in cui si riflette la sua personale esperienza, o le sue più profonde aspirazioni: sono gli individui più determinati, i più coraggiosi, quelli destinati ad assumere il comando della società. E gli ideali socialisti di uguaglianza sociale – così presenti negli scioperi, nelle manifestazioni dei movimenti operai dell'epoca – sono destinati a essere sconfitti, perché contravvengono a questa fondamentale legge della Natura e della Storia.

Come anticipavo, questo ritratto di un personaggio, psicologico e intellettuale, è del tutto riuscito, e lo si deve anche all'interpretazione particolarmente efficace, sottile, di Luca Marinelli.

Ma è altrettanto ben descritto l'ambiente intorno a lui: per esempio quello della famiglia borghese in cui Martin Eden si introduce: dai modi gentili, discreti, magnanimi, ma dai quali trapela il razzismo nei confronti di un ragazzo del popolo. E quella ragazza di cui egli perdutamente si innamora, se in un primo tempo appare soltanto comprensiva e giudiziosa, lascia poi trasparire, senza forzature, anche il conformismo e il perbenismo.

Ed è altrettanto riuscito il ritratto dell'amico intellettuale di Martin Eden, lo scrittore Russ Brissenden, interpretato con la sua consueta bravura da Carlo Cecchi: un uomo saggio, perspicace, ma anche del tutto disilluso, intimamente già avviato alla morte.

Ma quando Martin Eden, ottenuto finalmente dopo sforzi strenui il successo letterario, si trasforma in una specie di manichino grottesco, in rivolta contra la mitizzazione pubblica della sua figura, di cui però si compiace, ecco: non capiamo come quel personaggio, dai lati oscuri, ma con cui avevamo simpatizzato, possa essersi così drasticamente e un po' ridicolmente trasformato.

E viene da concludere che quella caricatura esprima un giudizio morale dell'autore sul personaggio: una condanna del suo individualismo, delle sue idee politiche, del culto della propria personalità.

Ma è allora una caricatura “ideologica”, piuttosto che il risultato di un percorso narrativo del tutto convincente.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 7 settembre 2019
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