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Gianfranco Cordì. Sean Carroll, il perenne corso del «tempo»
11 Febbraio 2012
 

1. Analisi della struttura del libro. Dall’eternità a qui. La ricerca della teoria ultima del tempo (traduzione di Franco Ligabue, Adelphi, 2011) del cosmologo americano Sean Michael Carroll (5 ottobre 1966) si presenta come un opera suddivisa in quattro momenti principali. Il primo di questi riguarda due acquisizioni fondamentali della fisica. Il secondo, una deduzione tratta da questi due successi della scienza. Il terzo, la formulazione di un’ipotesi abbastanza verosimile. Il quarto, infine, si sviluppa nelle vesti di una domanda precisa - che è poi quella che funge da filo conduttore di tutta la dissertazione. Alla fine, naturalmente, l’autore fornirà una sua risposta alla domanda che ha formulato varie volte nel corso delle pagine del suo volume e questa sua risposta costituirà il distinto contenuto originale dell’intero scritto in questione. Nello specifico, vediamo che le due acquisizioni tratte dal mondo della fisica sono le seguenti: «a base della nostra comprensione dei processi irreversibili vi sia un singolo concetto: una quantità chiamata entropia, che misura il grado di disordine di un oggetto o di un conglomerato di oggetti. L’entropia ha un ostinata tendenza ad aumentare, o almeno a rimanere costante, col passare del tempo: è il famoso secondo principio della termodinamica». L’entropia, in sostanza, ci permette una comprensione e una conoscenza dei processi irreversibili. «Come l’energia o la temperatura, l’entropia ci dice qualcosa sullo stato di un sistema fisico; in particolare, ci dice quant’è disordinato il sistema». A questa prima conquista della scienza Carroll fa corrispondere un secondo risultato altrettanto definitivo. «I processi irreversibili sono alla base della freccia del tempo. Gli eventi accadono in determinate sequenze e non in altre. E per di più questo ordinamento preferenziale è lo stesso, a quanto ne sappiamo, in tutto l’universo osservabile». Ricapitoliamo: l’entropia ci permette di capire i processi irreversibili i quali sono la causa della «freccia del tempo», ossia del fatto incontestabile che il tempo ha una direzione privilegiata entro la quale si dipana (a differenza dello spazio che non ne ha alcuna).

Una volta poste queste premesse è venuta l’ora per Carroll di derivarne una deduzione. La seguente: «se nell’universo tutto evolve verso un disordine maggiore, la configurazione iniziale doveva per forza essere estremamente ordinata». Siamo arrivati al punto in cui Carroll innesta la propria conseguente «ipotesi» (terzo momento del suo discorso). «Un’ipotesi molto importante riguardo l’universo al momento del suo inizio, cioè che esso si trovasse in uno stato di entropia molto bassa, dunque molto ordinato». Il quarto momento arriva con la proposizione di una domanda specifica: «come mai l’universo al suo inizio si trovava in una configurazione di bassa entropia che ha permesso a tutti i processi interessati e irreversibili di verificarsi?». Detto in altre parole: «perché l’entropia dell’universo osservabile era bassa in tempi remoti?». Dal punto di vista scientifico l’operazione compiuta da Carroll può essere racchiusa completamente dentro questo assunto: «all’interno del nostro universo osservabile il costante aumento di entropia e la corrispondente freccia del tempo non si possono dedurre dalle reversibili leggi della fisica. È necessario imporre una condizione al contorno all’istante iniziale… dobbiamo ipotizzare che l’universo osservabile abbia avuto inizio in uno stato di entropia molto bassa». Da qui, dunque, il discorso del nostro ricercatore (presso il Dipartimento di Fisica del California Institute of Technology) può partire per cercare di dare una soluzione al quesito di cui abbiamo detto sopra. Quesito che si può riformulare dicendo: «perché l’universo, al suo principio, si trovava proprio in quello stato in cui era piuttosto che in un altro?», ovvero: «qual’era la ragione per cui l’entropia era molto bassa nell’istante primordiale dell’universo»?

 

2. Due o tre cose sul nostro universo. Carroll, naturalmente, per condurci alla propria spiegazione dei fatti, ci dice due o tre cose sul nostro universo. «Se l’universo si sta espandendo e raffreddando adesso, era più denso e caldo in passato». Dunque «possiamo immaginare che ci sia stato un certo istante, tornando indietro di un tempo finito, in cui l’universo era infinitamente denso - una “singolarità”. Questa ipotetica singolarità è ciò che chiamiamo “il big bang”». C’è stato «un istante nella storia dell’universo» in cui tutto ha avuto inizio: compresi lo spazio e il tempo per come noi li conosciamo oggi. L’universo ha avuto un origine determinata; c’è stata una particolarità che ha portato le cose a condursi per come adesso le possiamo osservare. In più «l’universo primordiale era opaco». E «al momento l’universo si sta espandendo, diventando sempre più freddo e rarefatto». Ed inoltre, esso «lungi dal rallentare, sta accelerando». Si sta diluendo. È omogeneo: ha, su larga scala, lo stesso aspetto dappertutto. In definitiva nel corso del tempo l’universo compie alcune operazioni (si espande e si raffredda) a partire da quel «peculiare» stato iniziale nel quale non solo l’universo ma anche lo stesso tempo si è formato.

 

3. La risposta di Carroll. Tutto è così combinato per far si che Carroll possa offrire la propria «proposta» di soluzione alla domanda che egli stesso si è posto. Dal complesso del cammino percorso ci rendiamo conto che esiste una «costante» che ha guidato il nostro itinerario. Questa costante è il «tempo». Di esso l’autore ci informa che possiede tre «aspetti diversi». Essi sono i seguenti: «il tempo contrassegna gli istanti dell’universo», «il tempo misura la durata intercorsa tra due eventi» e «il tempo è un mezzo attraverso cui ci muoviamo». Interrogarsi dunque su quel «difficile» che «non è capire perché l’entropia cresce, ma perché fosse bassa all’inizio» equivale per Carroll a porsi un'altra domanda. Perché nello stato specifico (di bassa entropia) in cui ha avuto inizio l’universo il tempo nasceva insieme a tutte le cose? Vedremo che l’intera questione posta dal volume in oggetto - questione cosmologica per antonomasia - può esemplarsi tranquillamente come inchiesta sulla «quarta dimensione» del nostro sistema fisico particolare. A questo punto la risposta di Carroll può arrivare puntuale. «Il big bang non fu l’inizio dell’universo». E questo perché «l’universo che vediamo è un minuscolo frammento di un ensamble enormemente più grande, e il nostro particolare viaggio da un denso big bang a un eterno vuoto è parte del percorso dal vasto multiverso verso un’entropia sempre maggiore». In sostanza, esiste un «multiverso» all’interno del quale «un pezzettino minuscolo di spazio può staccarsi da un universo più grande e andare per la sua strada. Questo pezzo separato di universo, naturalmente, è stato chiamato “universo-baby”». Ovvero: «un universo-baby è una specie di fluttuazione, una di quelle che non tornano mai più indietro - cresce e si raffredda, ma non si ricongiunge allo spazio-tempo originale». Esiste un multiverso originario e unico che «partorisce» molteplici universi più piccoli (tra cui il nostro) e, ci avvisa Carroll, «il processo continua in eterno». Questo risponde alla domanda da cui eravamo partiti perché: «nelle regioni di spazio simili a un de Sitter, l’universo è in equilibrio e non c’è freccia del tempo. Negli universi-baby, nel periodo che va dalla nascita al raffreddamento finale, c’è invece una pronunciata freccia del tempo, con un’entropia che inizia molto bassa e cresce fino al suo valore di equilibrio». Il fatto che nel nostro universo l’entropia sia effettivamente «molto bassa» all’istante iniziale si spiega perciò a ritroso partendo dal presupposto che «lo spazio di de Sitter sia uno stato di alta entropia in cui è naturale che l’universo si trovasse». In tale stato può trovarsi solo un multiverso eterno piuttosto che un universo. Infatti lo spazio di de Sitter è qualcosa che si situa costantemente nell’equilibrio. Carroll gioca su questo ipotizzando proprio che tale equilibrio non esista. In questo caso viene data «all’universo la possibilità di aumentare la propria entropia senza limite». Abbiamo usato lo spazio di de Sitter perché, in qualche maniera, esso ci «porta a pensare» che sia «lo stato di massima entropia che possiamo immaginare in presenza di gravità». Tutto questo complesso gioco di dimostrazioni, deduzioni, argomentazioni e ipotesi è condotto da Carroll con l’ausilio della meccanica newtoniana, di quella quantistica, della teoria dei buchi neri, del principio olografico, della teoria dell’informazione e dell’inflazione. La risposta di Carroll è certamente raffinata. Nel multiverso, infatti, l’entropia cresce perché può crescere indefinitamente. Dunque quella «entropia bassa» che registriamo nel nostro universo è solo «parte del percorso» che il multiverso compie nella sua crescita costante verso sempre nuovi livelli di entropia. Proprio in quell’«istante» lì in cui si è formato il nostro universo, l’entropia del multiverso era «molto bassa». Dunque: il tempo è eterno. Le cose che succedono negli altri universi - tutti differenti dal nostro - sono diverse da quelle che succedono qui da noi. E sono differenti le cose che succedono qui da noi rispetto a quelle che succedono nel complessivo multiverso che fa da cornice a tutto quanto il quadro. Dunque: il tempo non nasceva in quello stato a bassa entropia che noi abbiamo registrato nel big bang. Esso c’era già da prima. E «tutte le manifestazioni macroscopiche della freccia del tempo… possono essere ricondotte alla tendenza dell’entropia a crescere, in accordo con il secondo principio della termodinamica». Nel nostro «universo baby»: la crescita di entropia comporta l’esistenza di processi irreversibili. Dunque esiste il tempo ed ha una direzione. Ma l’entropia tende a crescere sempre più anche nel multiverso. Dunque il tempo esisteva già da prima del big bang. Il tempo è eterno: è questa la risposta alla domanda che chiedeva perché lo stato iniziale del nostro universo era proprio quello stato e non un altro?

 

4. Quello che resta da dire. Questo libro, alla fine, allarga la prospettiva. Ci fa vedere le cose da un punto di vista più vasto, più esteso, più comprensivo. Sean Carroll arriva a conclusioni che si ritrovano molto vicine a quelle di Emanuele Severino. Il nostro universo è parte di un sistema molto più grande. Un sistema collettivo, multiplo, molteplice, composito. Il quadro, la cui cornice era appunto il multiverso, si fa adesso più copioso, più pingue, più ubertoso. Siamo dalle parti dell’abbondanza piuttosto che della scarsezza. Non abbiamo semplicemente allargato il nostro universo, ne abbiamo dato una definizione molto più dettagliata. In questo senso Carroll apre il proprio sguardo cosmologico al campo sterminato delle possibilità. Questa sua «predizione» - così egli stesso considera la risposta alla domanda da cui era partito - rende il tempo come «una sequenza ordinata di eventi correlati, che presi insieme costituiscono l’intero universo. Il tempo è allora qualcosa che ricostruiamo a partire dalle correlazioni di questi eventi». Questa sua «predizione» rende il tempo qualcosa che non è strettamente limitato alla vita del nostro universo. Un meccanismo o «un’idea» o un elemento caratteristico globale e onnicomprensivo. Un tempo smisurato: qualcosa che se potesse essere misurata sfuggirebbe ad ogni conteggio. Dall’eternità a qui è dunque un libro davvero smisurato, che aprendo le nostre menti al regno delle possibilità, ci fa viaggiare lieti lungo la strada della libertà intellettuale e della irrefrenabile ricerca pura. Unico rammarico, forse, è che l’autore avrebbe potuto approfondire ancora di più, rispetto a quanto effettivamente ha fatto, le implicazioni della «freccia del tempo» nel nostro universo, non solo dal punto di vista cosmologico ma anche filosofico e fisico in senso stretto. Ciononostante il libro, a lettura finita, si rivela un grande attrezzo per far viaggiare la fantasia e per riflettere sulle proposizioni di maggior rilievo della scienza moderna.

 

Gianfranco Cordì


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