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Bruna Graziani, una fiaba per il Re.
30 Maggio 2006
 
Questa sezione di Critica della Cultura ha già ospitato fiabe. E informo che, salvo modifiche in corso d’opera, il prossimo numero dell’annuario Tellus, quello che uscirà nella primavera del 2007, sarà dedicato alla letteratura per l’infanzia e per l’adolescenza: da Pinocchio ad oggi. Siamo allora lieti di ospitare la prova di Bruna Graziani, capitata sul nostro portale per una serie di virtuosi scambi con nostri recenti collaboratori come informa la lettera che qui accludo. (Claudio Di Scalzo)
 
 
Carissimi di Tellusfolio,
                                       ho sfogliato la vostra rivista web e devo dire che è deliziosa. A segnalarmela è stato il Professor Carlo Forin, entusiasta di voi. Mi diceva che la vostra Redazione è disponibile ad accogliere proposte nuove. Io sono una scrivente (la parola scrittrice mi sembra troppo); amo la parola e la letteratura. Scrivo storie di fantasia ma che hanno sempre, come le fiabe del resto, messaggi adattabili alla realtà e alle persone di tutti i giorni: il più bel circo che si possa immaginare...
I miei modelli sono Calvino ma anche Buzzati e attualmente Scabia Giuliano che molto si è occupato di teatro e, come me, per raccontare, privilegia la fantasia. Vi mando un “pezzo” e poi valuterete voi se è possibile avere un piccolo spazio personale. Potrebbe essere una storia a puntate con link di comunicazione tra persone che hanno la stessa passione per la letteratura.
Un brevissimo mio curriculum: Ho pubblicato due raccolte di racconti, e un racconto mio compare sulla raccolta Non disturbare, scritture in corso edito da Nuova Dimensione (Ediciclo, una casa editrice di Portogruaro VE). Alcune mie fiabe sono state pubblicate e illustrate (“Una fiaba per il re”, “L'acqua allegra”); ho vinto alcuni concorsi e sono stata segnalata ad altri; ho collaborato con una casa editrice di Treviso per un breve periodo. Ah, dimenticavo: il passato da farmacista...
Grazie mille e spero a presto!
complimenti ancora...
Bruna Graziani
 
 
 
UNA FIABA PER IL RE
 
 
Re Manfredo stava sempre seduto sul suo trono. Ci rimaneva incollato a tutte le ore del giorno tanto che i fronzoli del legno erano diventati lustri per via dell’usura. Ci mangiava pure sul trono e non si allontanava neanche per fare i suoi bisogni né per dormire. Era continuamente lì sopra, come una civetta sul trespolo, con i suoi occhi neri e veloci che parevano volere esplorare i nuclei delle cose e i segreti del buio.
Il letto alle sue spalle era occupato da pile di libri che sprofondavano sul copriletto di broccato verde come torri sbilenche sopra un prato deserto.
Quello che possedeva il re, erano alcuni valletti.
Uno era addetto al cibo, uno ai bisogni e uno ai sogni. Quest’ultimo portava il guanciale e lo appoggiava con gran cura sullo schienale del trono quando era l’ora di dormire.
Il quarto valletto, il bibliotecario, dormiva in un lettuccio modesto, vicino al re, per essere pronto in ogni istante a far fronte alle continue richieste del suo sovrano.
Il quarto valletto era un tipo senz’età, poteva avere cento come duecento anni; era secco come un bastoncino, con la pelle diafana e i movimenti rallentati dal tempo. Aveva una lente molto spessa che legava al collo con una catenella per non perderla. Anche la sua memoria, vecchio com’era, stava svanendo, si stava concentrando in un unico punto della mente, stava lì a concimare i ricordi. 
Re Manfredo aveva un’ossessione, non si dava pace.
Fissato, assillato, tormentato, angosciato, giorno e notte un chiodo fisso nella testa: cercava la fiaba che parlasse di lui.
Aveva consultato ormai più di un milione di libri.
Il bibliotecario glieli procurava e poi gli teneva il conto su un registro su cui annotava con una minuzia da frate amanuense titoli e pagine. Tutto il castello era pieno di libri.
Dietro al trono libri, sotto il trono libri. Libri a destra libri, libri a sinistra, in alto, in basso, ovunque. Libri, libri di tutti i tipi. Aperti, chiusi, con la copertina rigida o leggera, edizioni preziose, cornici d’oro o tascabili. Certe pagine erano state passate con l’indice così forte che i caratteri si erano consumati. Ma di quello che lui cercava: nulla. Della sua fiaba, nemmeno l’ombra.
‘Non si è mai visto al mondo un re senza fiaba’ masticava perfino durante il sonno.
Tutte le ricchezze del regno se ne andavano in montagne di carta e bocce di olio da lanterna perché il re leggeva anche di notte. Spesso infatti lo coglieva l’insonnia.
Si era talmente incaponito negli ultimi tempi a cercare la fiaba che parlasse di lui – era impossibile non ci fosse da qualche parte!- che aveva trascurato le necessità del regno. A certificarne le economie era sempre il baule delle monete. Quando il re terminò anche l’ultimo libro ed aveva bisogno di nuovo materiale, si fece portare il baule. Il valletto del cibo si aspettava la quota per le derrate mensili. Il valletto dei sogni aveva bisogno di un chilo di soffice piumino d’oca. Il momento era solenne.
“Aprite”, ordinò il re.
Il valletto sollevò il coperchio. Guardò preoccupato.
“Allora?” chiese il re titubante come volesse cercare nell’opinione di qualcun’altro la smentita alla magra realtà. Regnava un gran silenzio. Si sentiva solo la fontana, in giardino, gocciolare sul secchio.
“Ancora una”, disse facendo segno con il mignolo il valletto.
Il re si sporse verso il baule aperto. La moneta brillava solitaria sul fondo scuro.
“Libro o cibo?” chiese il valletto sforzandosi di non far trapelare la tensione.
‘Delle piume nemmeno a discuterne’,  pensò il valletto dei sogni. Poi incurvò le spalle deluso e tornò ad occupazioni secondarie.
Il bibliotecario era in piedi davanti al baule. Lui non sembrava preoccupato; lui aspettava, curvo come un ramoscello. Non aveva nemmeno alzato la lente in segno di interesse. La sua età aveva seppellito una sorpresa alla volta, assieme ad ogni cosa vissuta, liberandolo da ogni umore.
Se anche il re avesse detto ‘libro’ lui non avrebbe battuto ciglio, si sarebbe vestito, come aveva sempre fatto, sarebbe andato al villaggio e tornato a casa, anche portando la bicicletta a mano se il peso del libri superava quello dei suoi muscoli di vecchio. In quanto al cibo, gli dava così scarsa importanza che stava perdendoci l’abitudine.
Il re meditò la risposta cinque secondi. Poi scampanellò verso un valletto, e fu il segno inequivocabile della sua decisione.
“Libro!” disse al bibliotecario. “Il più grosso che trovi”, continuò risoluto.
Il bibliotecario partì con il suo passo lento; uscì e non guardò nemmeno le condizioni del tempo, montò sulla sua bici cigolosa e pedalò a fatica fino al villaggio. Il nuovo libro era talmente pesante che dovette farsi prestare un carretto. Tornò al castello sfinito, fece la consegna e si gettò sul letto.
Per cinquantasette ore gli occhi del re studiarono ogni sillaba ed ogni virgola. Ogni tanto parevano cogliere un riferimento, scorgere un segnale che svaniva subito dopo.  
Insomma il re si mise perfino a cercare il suo nome come fosse la risposta ad un enigma nascosto nel testo. Mise insieme le iniziali dei capitoli, le prime sillabe dei capoversi, fece l’anagramma dei titoli. Niente. Scorse pagina per pagina, sommari e commenti, e più andava avanti più sentiva un forte dolore al cuore per lo sfumare dell’ennesima possibilità. Era riuscito a trovare solo qualche indizio di una fiaba che poteva essere la sua: C’ERA UNA VOLTA (ma la cosa non lo convinceva). Si addormentò esausto sulla parola FINE.
 
Quando il re aveva un problema calava la notte nel regno. Tutti si mobilitavano fino a che la soluzione riportava, a qualsiasi ora del giorno, l’alba. Solo allora il ritmo tornava dentro i numeri e i loro cicli.
“Senza la mia fiaba non posso essere un vero re”, fu la prima cosa che disse Manfredo appena aperti gli occhi. ‘Che razza di re sono se non trovo la mia fiaba’, rimuginava senza darsi pace.
I valletti, in fila davanti a lui, non sapevano che dire, fare, consigliare.
La stanza si riempì di piccoli pensieri che sciamavano da un angolo all’altro, senza via d’uscita.
 
Spuntò, nel mezzo della veglia meditabonda, il valletto dei bisogni.
“Sire” disse, “perdoni”. Il re lo guardò senza vederlo.
“Sire, se il vostro problema è la fiaba… come mi pare di intuire…” cominciò a dire. Il re alla parola ringalluzzì sul trono, si tirò su, appoggiò i gomiti sui braccioli lustri e il volto tra le mani.
“Dunque?” disse incalzandolo.
“Giù, al villaggio, ho un cugino”.
“Vai avanti”, disse il re.
“È uno scriba profeta”.
“Scriba o profeta?” chiese il re.
“Scriba di professione, profeta per passione. Potreste…”
“Potrei?” disse il re prendendo ad arrotolarsi nervosamente la barbetta appuntita sull’indice.
“Potrebbe?” dissero in coro i tre valletti residui.
“Potreste commissionargli la vostra fiaba”.
“Una fiaba su misura?” disse il re perplesso.
“Sì una fiaba su misura!” replicò ‘Bisogni’.
“Una fiaba su misura…” sussurrarono Sogni e Cibo pieni di stupore.
Erano scocciati che ad avere avuto l’intuizione fosse stato il valletto delle mansioni meno nobili. Ma a pensarci bene chi poteva avere più esperienza di lui? Tanti anni di onorato servizio avevano permesso di affinare l’intuito e di dare un significato preciso ad ogni variazione d’animo.
“Fate chiamare lo scriba, subito!” disse il re.
“Sire” disse Bisogni, “lo scriba non si muove”.
Sogni e Cibo si tapparono le orecchie al rumore di tanta impertinenza.
“Bene” rispose il re senza scomporsi, “andrò io da lui”.
Infilò gli stivali, si buttò sulle spalle il mantello e partì.
 
“Si sieda pure maestà”, disse lo scriba quando se lo ritrovò davanti, tutto trafelato. “Si accomodi”.
Nella stanza dello scriba, alla finestra che dava sul giardino, c’era una ragazza che guardava fuori. Aveva riccioli color miele che si appoggiavano alle spalle. Un raggio obliquo di sole le dorava la sottile peluria delle braccia. Al cenno dello scriba il re si accomodò.
“Dica” disse lo scriba, “dica pure”.
La ragazza tendeva le braccia fuori, con un dito segnava i profili di spazi immaginari. Sembrava tastare il torpore della terra, l’aria immatura dei primi soli, l’odore verde dei prati acerbi. Una cicala che aveva scavato una galleria nel vaso di verbene sul davanzale cadenzava il pomeriggio.
Il re fu colto da un’improvvisa amnesia.
“Allora?” si spazientì lo scriba, “dica!”
Il re cominciò a fatica a mettere insieme le parole che aveva in serbo, lo fece con una logica sconosciuta.
La ragazza, come una tendina mossa dal vento, si ritrovò tra una giravolta e l’altra, dietro alla sedia del re. Appoggiò la palla che aveva in mano e gli toccò i capelli, gli sfiorò il viso.
“Non stia a preoccuparsi di lei” gli ripeté lo scriba, “dica, dica pure!”
Il re non solo non riusciva a sciogliere il garbuglio dei suoi pensieri ma dimenticò pure il motivo della sua visita.
“Scusi” disse il re allo scriba, “mi sento confuso, torno domani”. “Torno domani” sussurrò di nuovo qualche istante dopo, smarrito.
“Non servirà” profetizzò lo scriba, “e se sarà, sarà per l’ultima volta”.
Il re tornò a casa stranito. Nemmeno lo scriba profeta aveva potuto fare qualcosa. Non capiva neanche il senso delle sue parole. Se proprio doveva dire, l’unico effetto che avevano avuto, era stato quello di aumentare la confusione che l’aveva preso come un contagio improvviso dentro le pareti gialle e verdi della sua stanza. E poi adesso si sentiva così strano, sentiva la pelle tesa e gli sembrava che gli occhi gli fossero diventati più rotondi e grandi e che i vestiti gli si fossero stirati addosso, i vestiti non facevano una piega. ‘Che razza di sortilegio è mai questo’, pensò con una certa inquietudine.
Fece spostare i libri dal letto d’ottone e si stese sopra la trapunta verde.
Passò la notte a girarsi tra sbuffi di polvere e fogli.
Voleva dormire. Abbassava le palpebre ma sentiva i suoi occhi diventare rotondi e grandi e così profondi che avrebbero potuto risucchiare il lampadario che lo stava fissando e perfino il soffitto che stava lì impalato senza suggerirgli nulla di utile.
Ad occhi aperti, galleggiando sugli aloni delle candele, il delirio del re premeva per uscire in cerca di un nome che non conosceva e di cui poteva percepire appena l’odore, un tenue fiato di verbena. La sua inquietudine scandì la notte. Il re girovagava sulle lenzuola senza trovare pace.
Attorno a lui c’erano tre valletti in piedi, che aspettavano sentenze.
Il bibliotecario, invece, non si era più ripreso. Era un mucchietto d’ossa che a guardarlo, non ci si accorgeva nemmeno che respirava.
Stava disteso sul letto ad aspettare la sua ultima sconosciuta fatica. Con uno sforzo estremo consegnò un sacchettino di panno al re dicendogli “saprà presto cosa farne, maestà”.
Conosceva bene cos’era l’inquietudine di Manfredo, la stessa che in gioventù aveva fatto fare anche a lui smisurate imprese. Dopo le poche parole sfilò la lente dal collo e la appoggiò sul pavimento. L’intuito di vecchio gli dettò che da quel momento in poi non sarebbe più servita né a lui né a nessun altro. Pensò che se fosse sparito in quell’istante, confuso alla polvere dei libri che per un tempo infinito aveva maneggiato, non sarebbe stato un grosso male.
Si girò su un fianco, raccolse le ginocchia sul petto e cominciò a respirare lento, gli occhi chiusi dentro un abisso chiaro.
 
La lente del vecchio annunciò il mattino riflettendo l’ultimo impercettibile brillio di un raggio di sole che l’alba aveva infilato nella stanza.
 “Via, via, sto bene! benissimo!” disse Manfredo il mattino infastidito dall’attenzione di Sogni, Bisogni e Cibo. Il bibliotecario sembrava dormire profondamente. Il sovrano, per non disturbare il fedele servitore, impose ‘silenzio’ con il dito, ignaro dell’eternità di quel sonno.
Il re infilò stivali e mantello.
“La corona, presto, portatemi la corona!” ordinò stirando con le mani la stoffa della camicia sgualcita senza fare caso alla macchia di marmellata che aveva sul polsino.
Il valletto dei sogni sparì sotto il letto e recuperò la scatola in cui stava la corona. Non fece a tempo a darle una spolverata che il re gliela prese dalle mani e se la ficcò in testa di traverso. Poi partì di gran lena senza bisogno di chiedersi né dire dove, così, come il torrente va verso il mare.
L’alba era così nitida che sembrava avere scolpito con polso deciso i profili delle cose.
Il re camminò per un tempo che gli sembrava interminabile.
 
La figlia dello scriba era vicino al fosso che saltava la corda. Aveva pelle di magnolia e le dita del vento infilate tra i capelli.
Il re si avvicinò piano e quando le fu davanti riuscì solo a cinguettarle “ciao”.
Ma la ragazza che credeva di essere da sola si spaventò a tal punto che perse l’equilibrio e indietreggiando a piedi nudi sulla terra viscida scivolò nell’acqua fino alle ginocchia. 
“Chi sei?” disse aggrappandosi ai ciuffi d’erba della riva per risalire.
“Non avere paura” disse il re prendendole il braccio, “non ti voglio fare del male”.
La tunica bagnata si attaccava alle gambe. I piccoli frutti disegnati sembravano, sulla trasparenza della stoffa, macchioline dipinte sulla pelle. La ragazza si girò verso di lui, sembrò fissare lo sguardo sulla corona. Il re allora la tolse d’istinto come si fa con un cappello in segno di rispetto, e notando la chiazza di marmellata spiccare sul polsino, nascose mano e corona dietro la schiena.
La ragazza strizzava forte il vestito per farne gocciolare l’acqua. Il re mortificato tolse il mantello e lo distese sulla riva del fosso. Poi disse alla ragazza: “Siediti qui, all’asciutto”.
La ragazza disse: “Qui dove?”
“Qui, qui per terra”. La ragazza tastò per terra e sentì la soffice stoffa del mantello.
“Morbido” disse, “cos’è?”
“Un mantello” disse il re, “non vedi?”
“No” rispose lei, “non vedo”.
“Come non vedi?”
“Non vedo, sono cieca”.
Il re le prese la mano e la fece sedere sul mantello. Ora era accanto a lei. Sapeva di verbena. Ebbe il presentimento che tutti gli anni che aveva vissuto fossero serviti solo a maturare quell’istante.
“Sei il re?”
“Sì, cioè no… cioè, non so. Ma… mi riconosci?”
“La voce” disse, “la voce e gli occhi”, disse passandogli la mano sulle palpebre come aveva fatto il giorno prima. “I tuoi occhi sono come la pelle dell’uovo e qui” disse toccandogli la guancia con i polpastrelli, “qui sembra foglia di olmo. E i capelli” disse annusandoli e mettendosi a ridere, “i capelli sanno un po’ di muffa”.
Il re aveva lo stesso odore della sua biblioteca, polverosa e chiusa da troppo tempo.
“Ce l’hai la corona?” chiese la ragazza che non ne aveva mai toccata una.
Il re guardò con un po’ di malinconia la corona che, per stendere il mantello, aveva appeso ad un rametto di pino un po’ più in là.
La fretta con cui aveva dovuto partire aveva impedito al valletto dei sogni di darle una ripulita. Ammaccata e scura com’era, più che una corona, sembrava un pentolino abbandonato a cui la ruggine aveva mangiato il fondo. La prese e la mise tra le mani della ragazza.
Lei la tastò, sfilò ad uno ad uno i fili di una ragnatela e poi cominciò a strofinarla con una foglia di ninfea. La immerse nell’acqua del fosso, la asciugò con l’erba; poi alitò sul metallo, la lustrò con la stoffa del suo vestito e gliela rimise in testa.
Si muoveva come fosse la regina dell’aria. Fate e folletti le suggerivano i gesti o forse era solo il suo istinto, un mosaico di lampi ancestrali che sembravano renderla capace di aprire e chiudere cieli.
Cominciarono a parlare per secondi, minuti, ore.
La clessidra delle acque, delle maree e dei cicli fertili era un cerchio bianco nel cielo.
 
“Non si vede più nulla” disse il re ad un certo punto.
“Per me è uguale” disse la ragazza.
Il re prese un bastoncino e tentò di togliere le due pietre più grosse incastonate nella corona senza riuscirci. Allora ricordò le parole del vecchio.
Prese il sacchetto che gli pesava nella saccoccia e rovesciò sul mantello due pietre d’acqua dolce, l’addio del bibliotecario. Le pose delicatamente sugli occhi della ragazza. I ricordi di lei iniziarono a colorarsi di meraviglie. Era un riverbero che prendeva spessori indicibili di verdi, gialli e azzurri, di foglie infilate tra i rami e sagome intrappolate nelle dita, tradotte fino ad allora solo da suoni e odori. Vide allora le ninfee, la strada a doppia esse lievemente inclinata che arrivava alla casa del padre, l’acqua che aveva trattenuto la sua immagine, e che in quel momento gliela stava restituendo.
Sfiorò con le mani il suo vestito leggero, le sue forme acerbe. Poi guardò l’uomo che le stava a fianco: non aveva dubbi: era il volto di un re.
L’amore riordinò le sillabe, mise insieme le sue parole, leggere, pulite. Il re e la ragazza lo ascoltarono piano e poi sempre più forte, sul mantello che in braccio al pomeriggio li aveva portati fino alla notte e poi fino all’alba e poi fino all’ultima fiaba possibile.

 
 
 
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